|
|
TESTI
I testi qui raccolti sono stati selezionati dal prof. Elio Pecora per gli studenti delle scuole di Perugia in occasione del Concorso “Sandro Penna e Perugia” del 2002
Poesie scelte Un giorno in campagna Appunto
dal volume “Poesie” ed. Garzanti, 1997:
da “Un po’ di febbre” – ed. Garzanti:
Arrivati al paese di mia cugina non ci fu altro da fare che chiudersi in casa. La piovosa giornata di maggio sembrava di un autunno convinto, e chiusi nella casa di campagna tutti dettero mano al grammofono al pane e al prosciutto. Ma io mangiavo la mia merenda già serrato nella mia provvisoria cameretta. E se la porta richiusa mi portava lo stesso i rauchi suoni del grammofono con le vivissime voci degli otto fratelli di mia cugina, pure dalla finestra aperta entrava una quieta umida aria a ravvivare il mio appetito – e già la voglia di aprire quei libri di scuola, lì sulla rozza cassa al posto del comodino.
Primavera, dintorno Brilla nell’aria, e per li campi esulta, Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Ma a farmeli ritrovare, era stata l’impronta, sopra quei versi, di un piccolo dito sporco d’inchiostro più che la piovosa campagna lì fuori. Del resto quel verde molle e inabitato, ed io solo a « mirarlo » seduto sul letto fra quei cari libri sporchi di chi sa quale mio cuginetto ancora sconosciuto, tutto era un dolce stato d’animo già. Non risposi che all’invito di andare a tavola, la sera, e lì tra il prete anch’esso mio parente e il mio zio calzolaio che fingeva di essere severo, ne vidi di tutti i colori da parte dei miei cuginetti. Seppi molte cose di loro: quello era il prediletto dello zio prete, quell’altro della mamma perché più bello negli occhi azzurri, l’altro ancora del padre perché studioso, unico studioso fra tutti. Ma seppi anche che mancava Quintilio. Perché? Nessuno poteva dirlo. Quintilio poteva essere assente fino a tre giorni di seguito senza che si dovesse temere per lui. Aveva dodici anni, va bene, ma fino ai tre giorni si era oramai d’accordo, il limite era già stato convalidato e senza pericolo alcuno. Ma dove andava? E con quella pioggia, di sera, di notte, dove dormiva? In una stalla lontana, su di un pagliaio, sul tetto, nel bosco, pane in tasca. Ed io mi figurai Quintilio un’interessante figura, ma cattivo, aspro, ribelle, troppo sicuro di sé, brutto forse, già uomo precoce.
Durante tutta la notte non riuscii a dormire un momento. La novità della camera in casa del prete mio parente anche lui, il russare di non so chi quasi nella mia stanza, o forse solo l’incerta primavera, qualcosa mi teneva desto e penosamente lontano da quella calma finestra sull’ampia umida campagna del pomeriggio. Ma venne la mattina, e dalle chiare imposte la timida audacia di fuggire dal letto magari troppo presto. Trovai invece tutti pronti al mio caffelatte, e fuori il paese raggiante asciutto piccolo, perduto in un mare di verde. Restai stordito dolcemente e lasciai quella realtà intensa e delicata ricomporre assai lentamente il mio benessere, la mia felicità. Poi corsi all’impazzata su quel tenero verde, con mia cugina sempre complice prontissima, e facemmo a gara nel far capitomboli estrosi e nel declamare convinti i più lirici pezzi di alcuni poemi dannunziani che in quell’antica primavera avevano invaso la nostra cittadina.
Pei monti coglierai le genzianelle e per le spiagge le stelle marine
E si vivrà, oimè, si vivrà tuttavia!\ E il tempo fuggirà, fuggirà sempre!
Il nostro entusiasmo, la nostra felicità, erano alti assai, direi acuti, su quella campagna lavata e brillante. Ma eravamo come ebbri e infelici insieme. Ragazzi, ci avveniva del resto di vederci piangere in quelle corse, non so più se per l’aria frizzante o solo per effetto di quella buffa nostra felicità. Forse mancava una direzione precisa al nostro amore delle cose, e quel verde, quella poesia sensuale inasprivano la nostra gioia senza indicarci nulla, non so come dire, lasciandoci soli. Poi, svoltando un sentiero, ricordo l’apparizione di un ragazzino, esile e dritto verso di noi. Ci venne incontro calmo e lucente senza dir nulla. Ci guardava fisso ma senza osservarci, come l’arrivo esatto e indifferente di un treno alla stazione. « E’ Quintilio, » gridò mia cugina accarezzandolo e aggiustandolo tutto. Ma lui restava immobile senza chiedere chi fossi io, senza guardarmi più. E dopo un poco tirò fuori dalla tasca un pezzo di pane, e si mise a mangiarlo, calmo e assente. Io vidi molta luce negli occhi suoi, e subito capii che non si poteva chiamare luce intellettuale. Ma niente di cupo, di inferiore, o di ribelle, di uomo come avevo pensato la sera prima. Tentavo inutilmente di attaccare la delicata fortezza con domande monotone e logiche. Quanti anni aveva. Dov’era stato, perché non amava la casa. Egli rispondeva del resto alle cose precise e alle domande come quella ultima mi guardava invece sereno e senza capire. Aveva dodici anni e mezzo, era stato nella stalla di Baldo, poi sul tetto, poi sul fico. Io ero suo cugino, aveva capito, e già guardava nostalgico altrove. Si allontanava poi meccanicamente, come attratto da qualcosa che a noi non appariva. E ci lasciava di nuovo soli, con le nostre frenesie e i nostri languori poetici, vuoti e avidi. E noi lo vedevamo invece naturale anche in quel suo andare di corsa, che gli nasceva lento e graduale, dal passo attonito e preciso col quale ci aveva lasciati. Non parlammo mai di lui, ma era come sapere che egli era per sempre presente e pieno in noi. Lui che non era il preferito dello zio prete, né della mamma , né del babbo. E mia cugina che leggeva i poeti e viveva in città non era più la sorella di Quintilio. Quintilio era per lei quello ch’era per me, io credo. Non se ne parlava. Al pranzo egli non c’era. Ma noi eravamo stranamente quieti e fermi e, appena mangiato, vagammo di nuovo in quel verde lucente e infinito, ma senza più corse pazze, calmi lucenti insieme – felici, senza speranza, di non poter avere il modo per incontrare Quintilio. Poi si avvicinava l’ora della partenza, nel tardo meriggio, e già la « corriera » aspettava, vuota e impolverata, laggiù nella piazza presso la fontana. La luminosa giornata cadeva lentamente in un crepuscolo entro il quale non pareva più vera la sua pienissima luce trascorsa. Venuta la sera, fummo salutati da tutti, con un gran chiasso festoso entro la nostra tristezza. Solo Quintilio non c’era, ma nelle svolte della « corriera », appena staccatici dal paese ed entrati nella solitudine della prima campagna, noi quasi lo vedevamo apparire, lì sulla strada, dritto a darci il suo calmo saluto nella campagna già scura. "Perugia"
Ho rifiutato di fare un « pezzo » su Perugia. E’ la mia città, non la vedo da dieci anni, mi è troppo cara e troppo sconosciuta ormai. Direi allora tante cose imprecise o non più vere, parlerei di me più che di Perugia. E non vale l’asserzione di un mio amico perugino rivisto qui a Milano da poco. « Perugia non è cambiata. » Non mi fido di lui: dovrei cominciare col ricordare che i perugini sono troppo modesti nel parlare della loro città. Sono il contrario di tanti cittadini che tutti sanno. Io, da lontano, ho sempre pensato invece che a Perugia siano sorti grattacieli. Tanto più che non intralcerebbero nemmeno la vista dei bei panorami, la città essendo adagiata sul vertice di un monte, tutta in discesa. Quello che ricordo più intensamente è così sciocco e personale che farei ridere a raccontarlo e chiamarlo « Perugia ». Dovrei dire delle mie case. Delle case dove mi rivedo. Una è via Vermiglioli n. 5. Due passi dal centro della città. Passando sotto l’arco dei Priori, per via dei Priori in ripida discesa, è poi a destra la via Vermiglioli che, pur brevissima, è fatta di un tratto di strada normale: una scalinata una piazzetta un arco. Io stavo sulla piazzetta, che vedevo da alcune finestre, e di quella la cosa importantissima è il fracasso infernale che veniva da una bottega di fabbri. In ogni stagione il rumore era eterno e assorbe ogn’altra mia sensazione di quel luogo e di quel tempo. Se quelle finestre mi tenevano ancora dentro alla città, nella stessa casa avevo una terrazza vastissima che era già in campagna. Ricordo i liberi voli delle rondini che si frangevano contro quella terrazza sospesa sul vuoto di quel panorama. In un’altra casa ricordo il grande orto recinto da un murello alto su di una strada senza dubbio cittadina e lastricata. Su questa strada, a certe ore chiare del meriggio, si radunavano ragazzi in attesa di un certo lancio di fichi, o altro, da me e mio fratello inventato per far nascere il putiferio che si immagina. Mi rivedo poi con altri ragazzi meravigliarci alla meraviglia degli « inglesi » per certe strade che a noi parevano normali. Ce n’è una fatta di scalette, ma grande e lunga, sopra della quale passava un’altra strada tagliandola ad angolo retto, mentre quella fatta di scalette continuava biforcandosi, ma in senso verticale, in due piani, diventando di sopra uno strettissimo acquedotto, su cui si passava appena, e di sotto, una normale via e poi ancora una normale piazza. I nomi non li ricordo più. Ricordo bene quello di San Francesco, la meravigliosa e antica chiesa che si apriva solo a richiesta del visitatore. E lo ricordo unito alle piccole comitive di stranieri in visita, là dove io dovevo lasciare la celeste luminosa aria della primavera umbra per calarmi entro uno dei soliti archi che in quel caso mi portava al buio della scuola. Ma è doveroso parlare del « centro ». Che del resto è splendido in Perugia. Per chi discende da Porta Sole (splendido panorama, un poco rozzo dunque stranamente contrastante con gli altri. E qui c’è Dante: « onde Perugia sente freddo e caldo / da Porta Sole ») e arriva al fianco del Duomo la strada è davvero bella. A sinistra il Duomo, sulla piazza la celebre fontana dei fratelli Pisano e di fronte il palazzo dei Priori. Se c’è la luna sarà facile ritrovarla sopra. In fondo in fondo s’indovina che il « corso » finirà su l’infinito. Se si percorre infatti completamente, si arriva ad un parapetto dal quale la vista è una delle più belle d’Italia. A sinistra Assisi incassata sul fianco del Subasio, e da tutte le parti la luminosa valle per cui conviene, questa volta, chiamare in aiuto il Carducci (« e il sol nel radiante azzurro immenso / Fin degli Abruzzi al biancheggiar lontano / Folgora, e con desio d’amor più intenso / Ride a’ monti de l’Umbria e al verde piano »). Se, invece, sempre al « corso », s’intacca il già nominato arco dei Priori allora è difficile non trovar lì il forte vento che ne è la prerogativa più illustre. Perugia, si può dire, non manca mai di vento, un po’ come Genova o come Trieste, ma senza arrivare alle esagerazioni della « bora ». Ma quasi una violenza simile si può ritrovare, talvolta, sotto quell’arco, tanto che la brava mamma avverte di « respirare a bocca chiusa » quando la stagione non è, d’altronde per nessuno, felice. Per il resto Perugia non può lagnarsi del suo clima: non conosce né nebbie né forti caldure.
II
Mio padre aveva un negozio di varie cose, una specie di bazar, proprio ad un angolo del « corso ». Io stavo lì dentro molto spesso, curioso dei clienti ma pronto a ricacciarmi nella lettura di Rimbaud dopo aver spinto qualcuno all’acquisto di tre saponette a lire cinque piuttosto di una a lire due. In questo nostro negozio passavano le persone importanti della città e di maggior orgoglio, quelle che a Perugia sostavano in tutta fretta. Mio padre raccontava di aver regalato una palla di gomma al piccolo Willy Ferrero che, felice della palla, andava la sera a dirigere la sua grande orchestra al teatro Morlacchi. Io stesso ricordo l’attore Memo Benassi entrare da noi con un fare trasognato, tutto capelli all’aria. Assai diverso dall’elegante signore impellicciato che ho riveduto a Roma qualche anno più tardi. E, dopo entrato, quello che fece nel mio negozio lo ricordo assai bene, perché la mia commessa ne fu tutta sommossa sì da non capir più nulla, da non interessarsi più a nessun altro cliente per qualche minuto. L’attore, invece di chiedere qualcosa, si buttò stanco e sospirando su di un piccolo sedile che parve alla commessa indegno seggio, se si scusò tanto di non avere una poltrona. Noi lo lasciammo un attimo riposare ma poi, da commercianti, chiedemmo « cosa desidera ». « Una cravatta, » fu l’incerta risposta, e la mia commessa andava da lui con tutte le scatole aperte piene di cravatte. « Una qualunque. Sceglietela voi e andrà bene », e si alzò per pagare. La mia commessa disse di non aver visto mai uomo più interessante. Un’altra volta invece, entrando in negozio, mi sentii dire da mio padre: « Quello che è uscito adesso è più matto di te. » Guardai fuori: non c’era nessuno. Ma subito vidi uscire dal tabaccaio di fronte Bruno Barilli con tutti i suoi disordini personali e un grande rotolo di carta sotto il braccio. Io fui accorato di non essere giunto cinque minuti prima. Ma tutti ci si poteva poi rivedere, era quasi certo, al passeggio del « corso ». C’erano delle ore in cui era difficile non essere presenti. L’assente era sospettato in disgrazia. Noi giovani poi consideravamo un dovere fare il « corso » molte volte, anche se soffiava d’inverno « la tramontana ». E dovevamo lo stesso arrivare a toccare il parapetto sulla magnifica vallata, di cui abbiamo parlato, giacché era quest’ultimo il tratto più gelido, come si può immaginare, il più eroico. Ma a forza di ritoccare tutti questi ricordi chi sa che un giorno non mi prenda davvero la voglia di scrivere, se non un « pezzo » su Perugia, almeno qualche pagina autobiografica e sentimentale. "Appunto"
Sera di prima estate nella terra di San Francesco. Dall’alta Perugia si assiste alla grande corsa automobilistica. Siamo tutti ragazzi insieme stretti fra buio verde. Il cielo è lievissimo di stelle e la pianura sembra senza peso, tutta luci incostanti e leggere che vi si accendono. Si ode da lontano il rombo delle macchine e più bello è il gioco dei fari sulle strade che appariscono. Si fumano tante sigarette, senza peso; si parla poco, al contrario del solito. Ci sono poche donne tra la folta gente accorsa. Quando si torna nella calma città, noto di nuovo il ragazzo della biblioteca. « Il ragazzo della biblioteca » è un adolescente che ho visto studiare alla Biblioteca del Comune. Notai il suo aspetto insolito con meraviglia fra i tanti « topi di biblioteca ». Aveva un’aria così popolana, e un fare così sbarazzino e pensoso ad un tempo. Questa sera, incurante dei provinciali fra cui si vive, sta dando dei grandi calci ad un secchio di latta che si rotola con grande fracasso nel mezzo del « Corso». Mi sbaglio o c’è anche in lui, stasera, quello che è in me? |