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TESTI

 

ANTOLOGIA

 

I testi qui raccolti sono stati selezionati dal prof. Elio Pecora  per gli studenti delle scuole di Perugia in occasione del Concorso “Sandro Penna e Perugia” del 2002

 

Poesie scelte       Un giorno in campagna          Appunto

 

dal volume “Poesie” ed. Garzanti, 1997:

 

Poesie scelte

 

La vita... è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all'alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell'aria pungente.

 

Ma ricordarsi la liberazione

improvvisa è più dolce: a me vicino

un marinaio giovane: l'azzurro

e il bianco della sua divisa, e fuori

un mare tutto fresco di colore.

 

 

Mi avevano lasciato solo

nella campagna, sotto

la pioggia fina, solo.

Mi guardavano muti

meravigliati

i nudi pioppi: soffrivano

della mia pena: pena

di non saper chiaramente…

 

E la terra bagnata

e i neri altissimi monti

tacevano vinti. Sembrava

che un dio cattivo

avesse con un sol gesto

tutto pietrificato.

 

E la pioggia lavava quelle pietre.

È forse detto che l’amore umano

vano non debba rimanere mai…

Se la vallata è così chiara, il sole

- ormai sul monte – con leggero amore

con leggero amore

vi scherza. Né si duole più la terra.

Mi nasconda la notte e il dolce vento.

Da casa mia cacciato e a te venuto

mio romantico amico fiume lento.

 

Guardo il cielo e le nuvole e le luci

degli uomini laggiù così lontani

sempre da me. Ed io non so chi voglio

amare ormai se non il mio dolore.

La luna si nasconde e poi riappare

     - lenta vicenda inutilmente mossa

sovra il mio capo stanco di guardarre.

Se son malato vago tra la folla

del sobborgo. ma l’umido grigiore

invernale mi rende triste e solo.

A soffi sale sulla via un afrore

caldo da una palestra sotterranea

ove giovani e nude belve assalgono

nemici immaginari, in basso a scatti

soffiando.

                Un vecchio mendicante guarda,

come me, la scena senza nostalgie.

Città

 

Livida alba, io sono senza dio.

 

Visi assonnati vanno per le vie

sepolti sotto fasci d’erbe diacce.

Gridano al freddo vuoto i venditori.

 

Albe più dense di colori vidi

su mari su campagne inutilmente.

 

Mi abbandono all’amore di quei visi.

L’aria di primavera

invade la città.

Ai fanciulli la sera

cresce un poco l’età.

Scuola

 

Negli azzurri mattini

le file svelte e nere

di collegiali. Chini

su libri poi. Bandiere

di nostalgia campestre

gli alberi alle finestre.

Giunto fra un incrociar di lenti carri

stetti fra un indugiar di lenti affetti.

Sotto il cielo mirando i caldi tetti

esitavo nel sole tra i ramarri.

Già mi parla l’autunno. Al davanzale

buio, tacendo, ascolto i miei pensieri

piegarsi sotto il vento occidentale

che scroscia sulle foglie dei miei neri

alberi solo vivi nella notte.

Poi mi chiudo nel letto. E mi saluta

il canto di un ragazzo che la notte,

immite, alleva: la vita non muta.

Finestra

 

E’ caduta ogni pena. Adesso piove

tranquillamente sull’eterna vita.

Là sotto la rimessa, al suo motore,

è – di lontano – un piccolo operaio.

 

Dal chiuso libro adesso approdo a quella

vita lontana. Ma qual è la vera

non so

           E non lo dice il nuovo sole

Forse invecchio, se ho fatto un lungo viaggio

sempre seduto, se nulla ho veduto

fuor che la pioggia, se uno stanco raggio

di vita silenziosa... (gli operai pigliavano e lasciavano il mio treno,

portavano da un borgo a un dolce lago

il loro sonno coi loro utensili).

Quando giunsi nel letto anch'io gridai:

uomini siamo, più stanchi che vili.

Fuggono i giorni lieti

lieti di bella età.

Non fuggono i divieti

alla felicità.

Alta estate notturna.

Le tue finestre colme

di vita famigliare. Il mio silenzio

entro il buio fogliame.

Felice chi è diverso

essendo egli diverso.

Ma guai a chi è diverso

essendo egli comune

Il viaggiatore insonne

se il treno si è fermato

un attimo in attesa

di riprendere il fiato

ha sentito il sospiro

di quel buio paese

in un accordo breve...

Sempre affacciato a una finestra io sono,

io della vita tanto innamorato.

Unir parole ad uomini fu il dono

breve e discreto che il cielo mi ha dato.

 Torre

 

Mi portano lontano

dal mondo le campane

del vespro. Ma le umane

trite cose? la mano

di quell’uomo al lavoro

su la spiaggia lontana

che già s’abbuia…Umana

tenerezza nel coro.

Ritornava il borghese alla sua casa

pel mezzogiorno. In riva al fiume amico

un ragazzo operaio sue guerriere

voglie sfogava nel lanciare all’acque

sassi veloci. Ora al borghese piacque

nel sole il giuoco. E a lui disse parole

di cauta simpatia. Ma s’accigliò

l’operaio non uso a confidenze.

Insistere dovette con suoi modi

amorosi il borghese a fare il chiaro.

Quando in fine apparì dietro l’altera

espressione una luce limpidissima –

 

ma quanto limpida.

                              Tornò il borghese

alla sua casa con la nuova luce.

Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo

che il mio bianco taccuino sotto il sole.

La luna di settembre su la buia

valle addormenta ai contadini il canto.

 

Una cadenza insiste: quasi lento

respiro di animale, nel silenzio,

salpa la valle se la luna sale.

 

Altro respira qui, dolce animale

anch’egli silenzioso. Ma un tumulto

di vita in me ripete antica vita.

 

Più vivo di così non sarò mai.

Quando su la città, beata, antica,

il dolce e rumoroso crepuscolo cantava,

i lenti carrozzoni portavano lontano

le sudice divise dei giovani operai.

 

A tutti sconosciuto (e quanto poi, a se stesso!)

fra le odorose e sudice divise amava andare

- alla dolce deriva delle periferie -

un angelo. (E credete: non quello che oggi scrive).

Non era la città dove la sera

ebbro cantavo fra le sparse luci

sopra la dolce umidità del fiume.

Adesso un biondo sole sulla nera

bottega di mio padre par che bruci

la nostra assenza. E non ritrovo il fiume.

Disegnavano in me nel caldo letto

un’alba nelle curve i lenti stridi.

Assonnato lasciava la rimessa

il vuoto carrozzone illuminato.

Nel grigio l’attendevano animati

e caldi gli operai. Sul selciato lontano

anonimo batteva il primo amore.

Ero solo nel mondo, o il mondo aveva

un segreto per me? Di primavera

mi svegliavo a un monotono accordo

e il canto di un amore mi pareva.

Il canto di un amore che premeva

con gli occhi di quel cielo puro e fermo.

Era la mia città, la città vuota

all’alba, piena di un mio desiderio.

Ma il mio canto d’amore, il mio più vero

era per gli altri una canzone ignota.

Quando gli aspetti del mondo lucevano

entro il leggero sole di ottobre,

felici e crudeli era bello

sognare.

Si ricompone un ritmo. Primavera

nella gaia città, dove un fanciullo accorre

se passa una fanfara. Dove le chiese

dimenticano i fedeli, e nelle aiuole

dormono abbandonate biciclette.

Traversare un paese… e lì vedere

cheti fanciulli ridestarsi a un soffio

di musica e danzare. S’allontana

forma o colore: un sogno. Viva resta

la dolce persuasione di una fitta

rete d’amore ad inquietare il mondo.

Mi perdo nel quartiere popolare

tanto animato se la sera è prossima.

Sono fra gli uomini da me così

lontani: agli occhi miei meravigliosi

uomini: vivi e chiari, non valori

segnati. E tutti uguali e ignoti e nuovi.

 

In un angolo buio prendo il posto

che mi ha lasciato un operaio accorso

(appena in tempo) all’autobus fuggente.

Io non gli ho visto il viso ma i suoi modi

svelti ho nel cuore adesso. E mi rimane

(di lui anonimo, a me dalla vita

preso) in quell’angolo buio un suo onesto

odore di animale, come il mio.

Letteratura

 

Di là dal fiume un canto di ragazzi

ebbri, nella sera di luglio.

Io buio, sul sedile, e vuoto.

Ero una volta Holderlin… Rimbaud…

L’ombra di una nuvola leggera

mi condusse a un fanciullo

che uscito dal torrente

nudo si stese sull’erba.

                                    Mi sentii

come dopo la prima comunione.

 

                                   E su di lei

rotolarono giorni verdi e uguali

e monotoni vespri con le donne

ferme sugli usci di vie desolate

a manovrare pettini e capelli.

Tutto il giorno passai coi contadini.

Altro non feci che vederli fare.

La sera la vergogna ai colmi vini

mi prese: alla taverna cosa stavo io a fare?

 

Isolato, in un angolo, oh sul muro

leggo atterrito e attratto: «il nostro Sandro

poeta fa l’amore di sicuro,

è sempre solo muto come un mulo».

Senza fiato rimango, ormai felice

di quel che il muro, a me tacendo, dice.

Pianto

 

Da un grande casamento,

pieno di luci, viene

solo un rumore, assurdo

e inutile, di latta.

 

L’infanzia, se rammento,

è, a volte un poco sciatta.

Era un mattino di un dolce gennaio

pieno di sole. E la mia vita apparve

nel silenzio ricolma di parole.

Così non fu, perché le mie parole

furono scarse, e forse senza sole.

Ma resta nel mattino di gennaio

forse già un vecchio, ma pieno d’amore.

Era l’alba sugli umidi colli.

E la luna danzava ancora assorta

colle lepri del sogno. La lattaia

discendeva il suo colle. Ognuno amava

la propria casa come una scoperta.

da “Un po’ di febbre” – ed. Garzanti:

 

"Un giorno in campagna"

 

Arrivati al paese di mia cugina non ci fu altro da fare che chiudersi in casa. La piovosa giornata di maggio sembrava di un autunno convinto, e chiusi nella casa di campagna tutti dettero mano al grammofono al pane e al prosciutto.

    Ma io mangiavo la mia merenda già serrato nella mia provvisoria cameretta. E se la porta richiusa mi portava lo stesso i rauchi suoni del grammofono con le vivissime voci degli otto fratelli di mia cugina, pure dalla finestra aperta entrava una quieta umida aria a ravvivare il mio appetito – e già la voglia di aprire quei libri di scuola, lì sulla rozza cassa al posto del comodino.

 

Primavera, dintorno

Brilla nell’aria, e per li campi esulta,

Sì ch’a mirarla intenerisce il core.

 

Ma a farmeli ritrovare, era stata l’impronta, sopra quei versi, di un piccolo dito sporco d’inchiostro più che la piovosa campagna lì fuori. Del resto quel verde molle e inabitato, ed io solo a « mirarlo » seduto sul letto fra quei cari libri sporchi di chi sa quale mio cuginetto ancora sconosciuto, tutto era un dolce stato d’animo già. Non risposi che all’invito di andare a tavola, la sera, e lì tra il prete anch’esso mio parente e il mio zio calzolaio che fingeva di essere severo, ne vidi di tutti i colori da parte dei miei cuginetti. Seppi molte cose di loro: quello era il prediletto dello zio prete, quell’altro della mamma perché più bello negli occhi azzurri, l’altro ancora del padre perché studioso, unico studioso fra tutti. Ma seppi anche che mancava Quintilio. Perché? Nessuno poteva dirlo. Quintilio poteva essere assente fino a tre giorni di seguito senza che si dovesse temere per lui. Aveva dodici anni, va bene, ma fino ai tre giorni si era oramai d’accordo, il limite era già stato convalidato e senza pericolo alcuno. Ma dove andava? E con quella pioggia, di sera, di notte, dove dormiva? In una stalla lontana, su di un pagliaio, sul tetto, nel bosco, pane in tasca. Ed io mi figurai Quintilio un’interessante figura, ma cattivo, aspro, ribelle, troppo sicuro di sé, brutto forse, già uomo precoce.

 

    Durante tutta la notte non riuscii a dormire un momento. La novità della camera in casa del prete mio parente anche lui, il russare di non so chi quasi nella mia stanza, o forse solo l’incerta primavera, qualcosa mi teneva desto e penosamente lontano da quella calma finestra sull’ampia umida campagna del pomeriggio.

    Ma venne la mattina, e dalle chiare imposte la timida audacia di fuggire dal letto magari troppo presto. Trovai invece tutti pronti al mio caffelatte, e fuori il paese raggiante asciutto piccolo, perduto in un mare di verde.

    Restai stordito dolcemente e lasciai quella realtà intensa e delicata ricomporre assai lentamente il mio benessere, la mia felicità. Poi corsi all’impazzata su quel tenero verde, con mia cugina sempre complice prontissima, e facemmo  a gara nel far capitomboli estrosi e nel declamare convinti i più lirici pezzi di alcuni poemi dannunziani che in quell’antica primavera avevano invaso la nostra cittadina. 

 

Pei monti coglierai le genzianelle

e per le spiagge le stelle marine

 

E si vivrà, oimè,

si vivrà tuttavia!\

E il tempo fuggirà,

fuggirà sempre!

 

    Il nostro entusiasmo, la nostra felicità, erano alti assai, direi acuti, su quella campagna lavata e brillante. Ma eravamo come ebbri e infelici insieme. Ragazzi, ci avveniva del resto di vederci piangere in quelle corse, non so più se per l’aria frizzante o solo per effetto di quella buffa nostra felicità. Forse mancava una direzione precisa al nostro amore delle cose, e quel verde, quella poesia sensuale inasprivano la nostra gioia senza indicarci nulla, non so come dire, lasciandoci soli.

    Poi, svoltando un sentiero, ricordo l’apparizione di un ragazzino, esile e dritto verso di noi. Ci venne incontro calmo e lucente senza dir nulla. Ci guardava fisso ma senza osservarci, come l’arrivo esatto e indifferente di un treno alla stazione. « E’ Quintilio, » gridò mia cugina accarezzandolo e aggiustandolo tutto. Ma lui restava immobile senza chiedere chi fossi io, senza guardarmi più. E dopo un poco tirò fuori dalla tasca un pezzo di pane, e si mise a mangiarlo, calmo e assente. Io vidi molta luce negli occhi suoi, e subito capii che non si poteva chiamare luce intellettuale. Ma niente di cupo, di inferiore, o di ribelle, di uomo come avevo pensato la sera prima. Tentavo inutilmente di attaccare la delicata fortezza con domande monotone e logiche. Quanti anni aveva. Dov’era stato, perché non amava la casa. Egli rispondeva del resto alle cose precise e alle domande come quella ultima mi guardava invece sereno e senza capire. Aveva dodici anni e mezzo, era stato nella stalla di Baldo, poi sul tetto, poi sul fico. Io ero suo cugino, aveva capito, e già guardava nostalgico altrove. Si allontanava poi meccanicamente, come attratto da qualcosa che a noi non appariva. E ci lasciava di nuovo soli, con le nostre frenesie e i nostri languori poetici, vuoti e avidi. E noi lo vedevamo invece naturale anche in quel suo andare di corsa, che gli nasceva lento e graduale, dal passo attonito e preciso col quale ci aveva lasciati.

    Non parlammo mai di lui, ma era come sapere che egli era per sempre presente e pieno in noi. Lui che non era il preferito dello zio prete, né della mamma , né del babbo. E mia cugina che leggeva i poeti e viveva in città non era più la sorella di Quintilio. Quintilio era per lei quello ch’era per me, io credo.

    Non se ne parlava. Al pranzo egli non c’era. Ma noi eravamo stranamente quieti e fermi e, appena mangiato, vagammo di nuovo in quel verde lucente e infinito, ma senza più corse pazze, calmi lucenti insieme – felici, senza speranza, di non poter avere il modo per incontrare Quintilio.

    Poi si avvicinava l’ora della partenza, nel tardo meriggio, e già la « corriera » aspettava, vuota e impolverata, laggiù nella piazza presso la fontana.

    La luminosa giornata cadeva lentamente in un crepuscolo entro il quale non pareva più vera la sua pienissima luce trascorsa. Venuta la sera, fummo salutati da tutti, con un gran chiasso festoso entro la nostra tristezza.

    Solo Quintilio non c’era, ma nelle svolte della « corriera », appena staccatici dal paese ed entrati nella solitudine della prima campagna, noi quasi lo vedevamo apparire, lì sulla strada, dritto a darci il suo calmo saluto nella campagna già scura.

"Perugia"

 

Ho rifiutato di fare un « pezzo » su Perugia. E’ la mia città, non la vedo da dieci anni, mi è troppo cara e troppo sconosciuta ormai. Direi allora tante cose imprecise o non più vere, parlerei di me più che di Perugia. E non vale l’asserzione di un mio amico perugino rivisto qui a Milano da poco. «  Perugia non è cambiata. » Non mi fido di lui: dovrei cominciare col ricordare che i perugini sono troppo modesti nel parlare della loro città. Sono il contrario di tanti cittadini che tutti sanno. Io, da lontano, ho sempre pensato invece che a Perugia siano sorti grattacieli. Tanto più che non intralcerebbero nemmeno la vista dei bei panorami, la città essendo adagiata sul vertice di un monte, tutta in discesa.

    Quello che ricordo più intensamente è così sciocco e personale che farei ridere a raccontarlo e chiamarlo « Perugia ». Dovrei dire delle mie case. Delle case dove mi rivedo. Una è via Vermiglioli n. 5. Due passi dal centro della città. Passando sotto l’arco dei Priori, per via dei Priori in ripida discesa, è poi  a destra la via Vermiglioli che, pur brevissima, è fatta di un tratto di strada normale: una scalinata una piazzetta un  arco. Io stavo sulla piazzetta, che vedevo da alcune finestre, e di quella la cosa importantissima è il fracasso infernale che veniva da una bottega di fabbri. In ogni stagione il rumore era eterno e assorbe ogn’altra mia sensazione di quel luogo e di quel tempo. Se quelle finestre mi tenevano ancora dentro alla città, nella stessa casa avevo una terrazza vastissima che era già in campagna. Ricordo i liberi voli delle rondini che si frangevano contro quella terrazza sospesa sul vuoto di quel panorama. In un’altra casa ricordo il grande orto recinto da un murello alto su di una strada senza dubbio cittadina e lastricata. Su questa strada, a certe ore chiare del meriggio, si radunavano ragazzi in attesa di un certo lancio di fichi, o altro, da me e mio fratello inventato per far nascere il putiferio che si immagina. Mi rivedo poi con altri ragazzi meravigliarci alla meraviglia degli « inglesi » per certe strade che a noi parevano normali. Ce n’è una fatta di scalette, ma grande e lunga, sopra della quale passava un’altra strada tagliandola ad angolo retto, mentre quella fatta di scalette continuava biforcandosi, ma in senso verticale, in due piani, diventando di sopra uno strettissimo acquedotto, su cui si passava appena, e di sotto, una normale via e poi ancora una normale piazza. I nomi non li ricordo più. Ricordo bene quello di San Francesco, la meravigliosa e antica chiesa che si apriva solo a richiesta del visitatore. E lo ricordo unito alle piccole comitive di stranieri in visita, là dove io dovevo lasciare la celeste luminosa aria della primavera umbra per calarmi entro uno dei soliti archi che in quel caso mi portava al buio della scuola.

    Ma è doveroso parlare del « centro ». Che del resto è splendido in Perugia. Per chi discende da Porta Sole (splendido panorama, un poco rozzo dunque stranamente contrastante con gli altri. E qui c’è Dante: « onde Perugia sente freddo e caldo / da Porta Sole ») e arriva al fianco del Duomo la strada è davvero bella. A sinistra il Duomo, sulla piazza la celebre fontana dei fratelli Pisano e di fronte il palazzo dei Priori. Se c’è la luna sarà facile ritrovarla sopra. In fondo in fondo s’indovina che il « corso » finirà su l’infinito. Se si percorre infatti completamente, si arriva ad un parapetto dal quale la vista è una delle più belle d’Italia. A sinistra Assisi incassata sul fianco del Subasio, e da tutte le parti la luminosa valle per cui conviene, questa volta, chiamare in aiuto il Carducci (« e il sol nel radiante azzurro immenso / Fin degli Abruzzi al biancheggiar lontano / Folgora, e con desio d’amor più intenso / Ride a’ monti de l’Umbria e al verde piano »). Se, invece, sempre al  « corso », s’intacca il già nominato arco dei Priori allora è difficile non trovar lì il forte vento che ne è la prerogativa più illustre. Perugia, si può dire, non manca mai di vento, un po’ come Genova o come Trieste, ma senza arrivare alle esagerazioni della « bora ». Ma quasi una violenza simile si può ritrovare, talvolta, sotto quell’arco, tanto che la brava mamma avverte di « respirare a bocca chiusa   » quando la stagione non è, d’altronde per nessuno, felice. Per il resto Perugia non può lagnarsi del suo clima: non conosce né nebbie né forti caldure.

 

II

 

Mio padre aveva un negozio di varie cose, una specie di bazar, proprio ad un angolo del « corso ». Io stavo lì dentro molto spesso, curioso dei clienti ma pronto a ricacciarmi nella lettura di Rimbaud dopo aver spinto qualcuno all’acquisto di tre saponette a lire cinque piuttosto di una a lire due. In questo nostro negozio passavano le persone importanti della città e di maggior orgoglio, quelle che a Perugia sostavano in tutta fretta.

    Mio padre raccontava di aver regalato una palla di gomma al piccolo Willy Ferrero che, felice della palla, andava la sera a dirigere la sua grande orchestra al teatro Morlacchi. Io stesso ricordo l’attore Memo Benassi entrare da noi con un fare trasognato, tutto capelli all’aria. Assai diverso dall’elegante signore impellicciato che ho riveduto a Roma qualche anno più tardi. E, dopo entrato, quello che fece nel mio negozio lo ricordo assai bene, perché la mia commessa ne fu tutta sommossa sì da non capir più nulla, da non interessarsi più a nessun altro cliente per qualche minuto. L’attore, invece di chiedere qualcosa, si buttò stanco e sospirando su di un piccolo sedile che parve alla commessa indegno seggio, se si scusò tanto di non avere una poltrona. Noi lo lasciammo un attimo riposare ma poi, da commercianti, chiedemmo « cosa desidera ». « Una cravatta, » fu l’incerta risposta, e la mia commessa andava da lui con tutte le scatole aperte piene di cravatte. « Una qualunque. Sceglietela voi e andrà bene », e si alzò per pagare. La mia commessa disse di non aver visto mai uomo più interessante. Un’altra volta invece, entrando in negozio, mi sentii dire da mio padre: « Quello che è uscito adesso è più matto di te. » Guardai fuori: non c’era nessuno. Ma subito vidi uscire dal tabaccaio di fronte Bruno Barilli con tutti i suoi disordini personali e un grande rotolo di carta sotto il braccio. Io fui accorato di non essere giunto cinque minuti prima.

    Ma tutti ci si poteva poi rivedere, era quasi certo, al passeggio del « corso ». C’erano delle ore in cui era difficile non essere presenti. L’assente era sospettato in disgrazia. Noi giovani poi consideravamo un dovere fare il « corso » molte volte, anche se soffiava d’inverno « la tramontana ». E dovevamo lo stesso arrivare a toccare il parapetto sulla magnifica vallata, di cui abbiamo parlato, giacché era quest’ultimo il tratto più gelido, come si può immaginare, il più eroico.

    Ma a forza di ritoccare tutti questi ricordi chi sa che un giorno non mi prenda davvero la voglia di scrivere, se non un « pezzo » su Perugia, almeno qualche pagina autobiografica e sentimentale.

"Appunto"

 

Sera di prima estate nella terra di San Francesco. Dall’alta Perugia si assiste alla grande corsa automobilistica. Siamo tutti ragazzi insieme stretti fra buio verde.

    Il cielo è lievissimo di stelle e la pianura sembra senza peso, tutta luci incostanti e leggere che vi si accendono. Si ode da lontano il rombo delle macchine e più bello è il gioco dei fari sulle strade che appariscono. Si fumano tante sigarette, senza peso; si parla poco, al contrario del solito. Ci sono poche donne tra la folta gente accorsa.

    Quando si torna nella calma città, noto di nuovo il ragazzo della biblioteca. « Il ragazzo della biblioteca » è un adolescente che ho visto studiare alla Biblioteca del Comune. Notai il suo aspetto insolito con meraviglia fra i tanti « topi di biblioteca ». Aveva un’aria così popolana, e un fare così sbarazzino e pensoso ad un tempo. Questa sera, incurante dei provinciali fra cui si vive, sta dando dei grandi calci ad un secchio di latta che si rotola con grande fracasso nel mezzo del « Corso». Mi sbaglio o c’è anche in lui, stasera, quello che è in me?