Amici di Sandro Penna - Perugia

Libera associazione di lettori per la promozione e la conoscenza di Sandro Penna  in Italia e nel mondo

 Sandro Penna

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TESTIMONIANZE

 

Giaime Pintor

Elsa De’ Giorgi

Settimia Ricci

Paola Bordoni

Sandro Allegrini

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GIAIME PINTOR: “Penna, sì”

 

Cesare Pavese a Giaime Pintor ( 17 aprile 1943 ):

 

“L’ultima trovata del padrone [Giulio Einaudi,ndr] è di uscire con un gruppo di poeti,possibilmente di ciascuno l’opera omnia, nella collezione Montale-Rilke. Ha già scritto a Sinisgalli che da sedici mesi ha firmato contratto con Mondatori e non esce e ne è stufo. Forse si sgancerà. Considerati: Umberto Saba, Adriano Grande, Giorgio Vigolo, Sergio Solmi, Carlo Betocchi, Mario Luzi, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Beniamino Del Fabbro e sentito anche il Gatto Lupesco [Carlo Muscetta], penseremmo di invitare Saba e Penna, che sono gli unici che dalle bibliografie dei Lirici Nuovi risultano non appartenenti a grandi editori. Hai obiezioni ?”

 

Giaime Pintor a Cesare Pavese ( Vichy, 24 aprile 1943 ):

 

“Caro Pavese,

esprimo parere contrario all’iniziativa dei poeti. So benissimo che quest’idea vagola da tempo nella testa del padrone il quale ritiene che sia suo dovere assumere il patrocinio della cultura militante, ma ho molti dubbi sulla validità di quei poeti  a rappresentare la cultura militante ( soprattutto quella del dopoguerra a ci dovrà essere legato il nome della nostra casa [Einaudi,ndr] ). Siccome prevedo che la cosa si farà lo stesso aggiungo i miei giudizi personali con la preghiera di tenerne conto:

Saba. Magari, ma in ogni modo non l’opera omnia. Cosa sono queste manie mondadoriane ? L’opera omnia va bene per poeti che siano storicamente accettati; quella di Saba non significa nulla. Molto meglio una rigorosa scelta fatta dall’autore e con carattere definitivo.

Sinisgalli . E’ nei suoi limiti il più riuscito dei giovani e quello che vedrei più favorevolmente. Ha anche il vantaggio di non essere mai stato pubblicato insieme.

………….

Penna. Con Sinisgalli, quello che sarebbe più ragionevole pubblicare. Anche qui una scelta rigorosa.”

 

Cesare Pavese a Giaime Pintor ( 5 maggio 1943):

 

“Per i poeti sta’ tranquillo. Avevamo già contenuto il padrone nei limiti dell’onesto e, lasciandolo trattare con Penna e Saba, io insistetti  su Sinisgalli che altri sconsigliava. Pare che esca anche Lavorare stanca.”

 

( in “GIAIME PINTOR – DOPPIO DIARIO” , a cura di Mirella Serri, Einaudi, 1978 ) (lb)

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ELSA DE’ GIORGI, “Ho visto partire il tuo treno”, Leonardo ed., 1992:

 

“io vivere vorrei…ma defilato

entro il dolce rumore della vita”

 

“Com’era lontano questo  Pier Paolo [Pasolini] da quello di vent’anni prima [siamo nel 1975,ndr]. Non v’era più traccia dello spaesamento incantato e ostile  che l’aveva iniziato a rivelarsi Roma attraverso le sue borgate, ragazzo tra i suoi ragazzi. Quando si accoccolava tra i nuovi amici, Elsa Morante, Moravia, Penna, me, lo faceva con la grazia selvatica di un gatto che ti predilige in un tempo suo proprio, magari ripetuto e fedele, ma senza illuderti di accasarsi con te:” pag. 69

 

“Se io ero troppo fastosa, Elsa [Morante,ndr] si seccava perché incuriosivo i ragazzi. Era di quei tempi che lei aveva preso a vestirsi come un ragazzo, camicette di cotone e pantaloni, anche se prima le erano piaciute stoffe preziose, fiorate. Ma adesso, spiegava, lei sentiva il bisogno di mimetizzarsi con quei ragazzi di Pier Paolo, di essere lei a bearsene di meraviglia, non di meravigliarli.

Noi – parlo di Carlo Levi, i Guttuso, qualche altro – avevamo assistito al simposio da un altro tavolo. Magari era con noi Penna il quale, per puntiglio, non aveva voluto sedere con Elsa al tavolo dei ragazzi, anche se lei l’aveva invocato. Dopo cena, ci accodavamo pazienti e curiosi per conto nostro, qualcuno sollevato, altri un po’ mortificato per esser stato escluso, o prendevamo un’altra destinazione e quasi sempre, in quel caso, Moravia ci seguiva”   pag. 70

 

“Calvino detestava Roma, un argomento che amava sottolineare; ma poi la percorreva volentieri con me, e tutto sommato a queste cenone romane ( ne ricordo fuoriporta in epoca preestiva qualcuna con Elsa Morante, Moravia, Penna, Pasolini ) sembrava divertirsi, anche se era sempre come un bambino quando lo portano in giostra: dopo un po’ gli gira la testa e vuole scendere.” pag. 158 (lb)

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SETTIMIA RICCI

 

Incontro perugino alla Sala dei Notari con i poeti locali

 

Elio Pecora ricorda il «suo» Sandro Penna

 

Ancora un pomeriggio perugino, per Elio Pecora. Ancora un viaggio nella città di Sandro Penna, il “suo” poeta. Suo perché gli fu amico, ma soprattutto per il ruolo da lui avuto nella riscoperta dell’opera e della vicenda umana. Personaggio misterioso e introverso, torbido e limpido insieme, a tutti noto eppur sconosciuto, Sandro Penna fu per il giovane Elio Pecora appena giunto da Napoli nella capitale, una scoperta stimolante, una lezione di vita, un maestro da seguire, un amico al quale voler bene. E così, quello di venerdì scorso alla SaIa dei Notari, anziché un incontro più o meno formale con i poeti perugini del “Merendacolo” è stato invece un percorso a ritroso nel tempo per rievocare con particolari anche inediti la figura di Penna, ormai da molti definito il più grande poeta del novecento. Seduto fra Walter Cremonte  che si è limitato ad un breve saluto conclusivo, e Vittoria Bartolucci che lo ha preceduto con la lettura di una serie di brani in versi e di considerazioni critiche, Pecora ha rievocato fatti ed eventi da lui vissuti in prima persona. Si sono materializzate così, davanti agli occhi dei presenti, la vecchia casa di Via Mole dei Fiorentini dove il poeta visse gli ultimi anni prima di morire, ma anche i primi incontri, le discussioni, le abitudini, le manie. Una narrazione intrisa di nostalgia, e velata anche d’amarezza, che non esclude però la speranza. Ha affermato infatti Pecora: “Venendo qui, mi sono fermato a Todi e ho fatto colazione in un ristorante che si chiama “Jacopone”. Anche Penna, al pari, e forse ancor di più del frate umbro, è stato un grande poeta. Chissà se un giorno la sua terra così avara di riconoscimenti quando era in vita, non dedicherà un luogo anche a lui?”. Parole dettate senza dubbio dall’affetto, ma ampiamente giustificate anche dalle recenti riscoperte dei carteggi inediti di Penna, dei quali si è parlato durante il convegno dello scorso autunno a Perugia.

E’ ormai certa infatti, e documentata da tutta una fitta e inedita corrispondenza, l’amicizia di Penna con Montale. E dal carteggio rinvenuto da Elio Pecora sembra risultare inconfutabilmente che fu il Nobel ad essere ispirato dal semisconosciuto perugino, e non il contrario come si era sempre pensato. Particolare questo, certamente da non sottovalutare nel riesame e nello studio della poesia e di tutta l’opera penniana. Un’occasione in più dunque, per rievocare il maestro amico davanti ad una scolaresca, i liceali allievi di Brunella Bruschi, interessata ed entusiasta sebbene eccitata forse per la presenza di chi conobbe il poeta da vicino. Un interesse genuino, espresso con domande e riflessioni appropriate e intelligenti, riguardanti la vita, l’opera, la traccia da lui lasciata nella panoramica della letteratura italiana, rispondendo alle quali Pecora non ha nascosto una punta di commozione. Scontata, eppure interessante la conclusione, con la lettura di una scelta fra le migliori poesie del maestro, alla quale è seguito, spontaneo un lungo applauso.

 

Settimia Ricci, “Corriere dell’Umbria”, 20 maggio 1991

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PAOLA BORDONI: Penna 6 volte

 

Si può tradurre poesia senza tradire “la” poesia?

Si può, nella traduzione di una poesia, superare l’alternativa tra bella/infedele e brutta/fedele?

Impresa ardua. Per qualcuno impossibile.

Scriveva Diego Valeri già nel 1956: “…trasportare dalla lingua nativa in altra lingua l’incanto particolare di una poesia, di una strofa, di un verso, oggi, al lume della nuova coscienza critica, appare impresa nettamente impossibile, dato che quell’incanto lo sappiamo affidato al movimento ritmico, al gioco degli accenti più o men forti, alle pause di varia durata tra parola e parola, all’impasto dei fonemi, alla incidenza di una dieresi, alla suggestione musicale di una rima, al trascorrere di un verso nell’altro per mezzo di un rejet, e via dicendo: tutte condizioni che, mutando la lingua, non possono non mutare e perciò cadere”.

Che facciamo allora? Precludiamo la conoscenza della poesia, o meglio, di quella particolare forma di conoscenza, intuitiva, indipendente dalla ragione concettuale, che è la poesia, a tutti quelli che non conoscono le varie lingue? Ognuno “condannato” al ristretto ambito linguistico-culturale di provenienza?

Forse il vero tradimento della poesia sta proprio nel restringerne i confini, perché “è bisogno e destino dell’uomo raggiungere l’altro e gli altri e per tanto, quel sé che di dentro chiede di essere riconosciuto e accompagnato nel cammino e nella sosta del vivere. E’ del poeta questa scelta, dono e fatica insieme. Viene da un più che, per mostrarsi e toccare, deve concludersi in una presenza e in un lascito. La poesia è un tessuto di parole, che chiamano, sfiorano, accennano, rimandano. E feriscono, e carezzano, accostano il dolore e la morte, li annientano rivelandoli, promettono la felicità, la corteggiano, la aggirano, conducono il mondo e l’essere e l’esistere in un altrove fuori del tempo; che si palesa e respira nel tempo immisurabile dell’invenzione” (Elio Pecora, Poesia e Comunicazione, lectio magistralis, aprile 2006).

Vogliamo dunque sottrarre all’altro questo tempo? No. Quindi, anche se, per dirla con Goethe, ogni lingua è la resa unica di una Weltanschauung; anche se infinite sono le sfumature diacroniche e sincroniche della cultura di un popolo che vive, plasma e ricrea continuamente la sua lingua, mai del tutto trasferibile in un'altra, nonostante la ricchezza di sinonimi (e il poeta celebra l’apoteosi di questa unicità); anche se, come ha scritto Manuel Bandeira, uno dei massimi poeti brasiliani, si traducono bene solo le poesie che avremmo voluto scrivere noi, cioè quelle che esprimono cose che erano già in noi, ma non formulate; anche se le “trovate”, nelle traduzioni come negli originali, risultano sempre intuitive; anche se ogni tentativo di traduzione o traslato non può che rimanere un’approssimazione, un dire “quasi” con le stesse parole perdendo inevitabilmente “qualcosa” dell’originale… tradurre si può, si deve.

O meglio, “tradurre non si può – scrive ancora Diego Valeri - ma intanto, per impulso d’amore, ossia per desiderio di possedere intimamente un’opera di poesia che amiamo, si traduce, e si tenta di tradurre... Il tradurre i poeti non è un puro esercizio, un puro gioco letterario…Poiché ogni nazione esprime per la voce dei propri poeti il più profondo di sé, la parte più sensibile e segreta e, per così dire, personale della propria anima, è chiaro che chi traduce, poniamo, in italiano qualche grande poeta tedesco o francese, inglese o russo, apre agl’Italiani la via verso un’intima conoscenza del mondo morale tedesco o francese, inglese o russo, e contribuisce pertanto a instaurare nuovi e sostanziali rapporti, immuni da ogni diplomatico formalismo, tra popolo e popolo”.

Direi meglio, tra uomo e uomo.

 

Atto d’amore. È per questo forse che alcune docenti di lingua e letteratura straniera (inglese, francese, spagnola, tedesca, portoghese) sono state viste alcune settimane aggirarsi pensierose per i corridoi dell’ I.T.C. Commerciale “Vittorio Emanuele II” e scendere le scale che portano alla ricca biblioteca, meditando parole da scegliere, ritmi da reinventare, suoni da rendere. Ad attenderle, intorno a un tavolo, il Professore, ideatore dell’ardua impresa di tradurre alcune poesie di Sandro Penna (se Leopardi è il nume che accompagna la sua scrittura… – scrive Elio Pecora - tutta italiana è la musica, densa e leggera insieme…) nelle maggiori lingue europee. Per onorarlo a cent’anni dalla nascita e riproporlo ancora ai tanti studenti italiani e stranieri che lo conoscono poco e male. Nella scuola che lui stesso frequentò, nella città che fu la sua città. Una città, Perugia, non sempre attenta o tenera verso questo suo figlio difficile, scomodo nella sua sincerità scandalosa, che trovava coerente espressione in un verso che mai prima di lui la poesia italiana aveva conosciuto così luminoso, così nitido.

Penna è il poeta della luce e dei colori, della vita guardata in disparte, assaporata nella felicità di un attimo fuggente e fatta poesia senza tempo.

Come tradurre in un’altra lingua l’azzurro? Quello del mare tutto fresco di colore, quello di un meriggio d’estate…

Come tradurre in un’altra lingua il bianco? Quello della divisa dei marinai, di una domenica festosa, del sorriso del fanciullo, segno di liberazione, ma anche di perdita, di assenza, di nostalgia…

Come tradurre il nero? Quello delle scale della sua taverna, del treno, segno di incontro, di speranza, ma anche quello della buia bottega di suo padre, segno di minaccia, di solitudine…

Come tradurre i colori che nascono dall’assenza del colore? Ad esempio – scrive Vittoria Bartolucci – “le finestre illuminate nella notte” o la “chiara voce del mare” oppure “la bicicletta tutta luce”, da una parte, e il “davanzale tutto buio” dall’altra.

Come tradurre i luoghi di Penna, quel suo mondo tutto popolare, fatto di periferie, quartieri operai, osterie, stanze in affitto, cinema, stazioni, biciclette; quel suo mondo naturale fatto di sole, spiagge, barche, alberi, fiumi, stelle…

Già, come fare? Croce e delizia del tradurre…

Si è tentato, provato e riprovato. Pomeriggi spesi nella biblioteca che porta il suo nome. E ne è nato un libro, “Penna 6 volte” (edizioni Era Nuova), un’antologia a più voci da cui la poesia di Penna esce, se non fedelissimamente riprodotta per l’impossibile equivalenza tra lingue diverse, sicuramente rinnovata e ricreata nella sua grazia e leggerezza.

Anche così il poeta, poeta del mondo, continua il suo viaggio tra gli uomini.

 

"Sempre affacciato a una finestra io sono,

io della vita tanto innamorato.

Unir parole ad uomini fu il dono

breve e discreto che il cielo mi ha dato."

 

Paola Bordoni, 4 Ottobre 2006, tratto dal Blog " La voce di Ghismunda" (non più online)

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PAOLA BORDONI: Ma non saremo che noi stessi ancora

  

Per tutto il pomeriggio non aveva telefonato. Strano. I suoi amici più cari erano soliti ricevere da lui frequenti telefonate, anche di notte e più volte al giorno. Telefonate nelle quali si lamentava, con voce querula e cantilenante, dei suoi mali, della sua insonnia, della sua povertà. Ma forse non c’era di che preoccuparsi; forse, finalmente, il sonnifero (il Nembutal, proprio quello – diceva speranzoso – di Marilyn Monroe) aveva fatto effetto e stava godendosi il meritato riposo. Ma qualcuno non era tranquillo: ricordava pochi giorni prima, quando lui gli aveva sussurrato di aver sentito la “dolcissima fanciulla”, invocata da Leopardi, passare su Roma e fermarsi sulla sua casa… Così, quella sera stessa, quando suonando alla porta, nessuno venne ad aprire, si fece dare le chiavi in consegna dalla vicina e aprì l’appartamento. Silenzio. Percorse il lungo buio corridoio, arrivò nella nota stanza in fondo dalle imposte serrate, rischiarata solo dalla debole lampadina pendente dal soffitto e da un’altra che ardeva accanto al suo letto. Lui era disteso là, il viso quieto… sembrava dormisse. Ma non dormiva.

Accadeva trent’anni fa.

Da tempo ormai viveva solo. La madre amore e odio, la madre abbandono e nostalgia, perdita e tenerezza, era morta da qualche anno. Raffaele se n’era andato, dopo liti, rancori e ricatti, portandosi via anche l’amato Black, compagno d’allegria nelle ultime scampagnate laziali, quando ancora lui poteva raggiungere il sole e i prati verdi e il mare tutto azzurro; quando ancora la vita non aveva posto i suoi ultimi e definitivi divieti alla felicità, con l’incombenza della vecchiaia e della malattia. “Fuggono i giorni lieti / lieti di bella età. / Non fuggono i divieti / alla felicità".

Ma la casa non era vuota. Ovunque dipinti, disegni, quadri, cornici (dal dopoguerra si arrangiava a sopravvivere come mercante d’arte, tra intuizioni, traffici altalenanti e patacche); ovunque scatole, medicine, libri, giornali, panni, polvere; ovunque manoscritti, lettere, appunti, fogli, quaderni. Materiale prezioso, chiuso nei cassetti o dimenticato su una sedia, in un baule, spesso legato con lo spago, inedito, da raccogliere e studiare, con devozione ed amore, per comprendere di più e raccontare a tutti il miracolo di una vita fatta Poesia.

Mai diploma di ragioniere fu più inutile. Come, del resto, per Eugenio Montale. Conseguito a stento, a causa delle perenni bronchiti, ma con buoni voti finali, Sandro Penna nella sua vita non conservò mai a lungo un impiego che richiedesse aride cifre ed ore al chiuso. Anche quando a Perugia aiutava suo padre in negozio, cercando di convincere qualcuno all’acquisto di tre saponette a lire cinque  piuttosto di una a lire due, si rifugiava nel retrobottega a leggere Leopardi, da cui fu conquistato per sempre e da cui apprese, e riconobbe come suo destino, quella “veemenza dei desideri” che, propria dell’età dei fanciulli, rende incapaci ad apprendere “l’uso del mondo”, ad adattarsi alle sue norme, alle sue convenzioni, ai suoi divieti. E fanciullo rimase, pure da vecchio (“Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”), estraneo intrinsecamente ad ogni forma di potere, anche letterario; essenziale nei bisogni e però innamorato della vita. Da “fermare” per sempre in un bianco taccuino.

 

“Notte: sogno di sparse

finestre illuminate.

Sentir la chiara voce

del mare. Da un amato

libro veder parole

sparire. Oh, stelle in corsa,

l’amore della vita!”

 

leggeva anche Rimbaud, Holderlin, Nietzsche, D’Annunzio, Wilde, Poe, Baudelaire… Si cercava, nei libri, come nella vita, proteso verso un ideale puro di Bellezza, che era estetica, rivolta alla natura, ai cieli, ai tramonti, alle albe, al mare, alla notte, ma era anche, lo sentiva sempre più consapevolmente, carnale. Rivolta al “divino fanciullo”, a quell’unica bellezza per lui fatta di grazia, forza, semplicità animale e perfezione di linee.

Pederasta, dicevano, e dicono, con un certo disprezzo. Ma lui: “… che colpa ho io, fanciullo divino, se Natura vuole così? Io non sono cattivo. Questo è l’amore, vieni.”.

 

 “È l'ora in cui si baciano i marmocchi
assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. Io, mostro da niente”.

 

 “Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie. Tutto è in te delicato senza opulenza e la tua linea semplice e un po’ acerba è così poco amata dal volgo. Hai l’armonia della più grande e semplice bellezza. Come lontano sei dalle grosse complicazioni femminili, dalla pesantezza e dall’oscurità virili. Sei tutta dolcezza attiva. Il tuo viaggio verso la forza s’è arrestato alla più bella tappa: tutta la fanciullezza è viva ancora, ma senza puerilità sciocche. La virilità s’annuncia solo coi suoi più chiari pregi: sei semplice e retto e orgoglioso, pronto a difenderti se solo ti si guarda. Non pensi ai rossori delle molli fanciulle. Le disprezzi e ami solo i compagni”.

 

 Dal portiere non c’era nessuno.

C’era la luce sui poveri letti

disfatti. E sopra un tavolaccio

dormiva un ragazzaccio 

bellissimo.

                   Uscì dalle sue braccia

Annuvolate, esitando, un gattino.

 

Ecco il fanciullo acquatico e felice.

Ecco il fanciullo gravido di luce

più limpido del verso che lo dice.

Dolce stagione di silenzio e sole

e questa festa di parole in me.

 

Il fanciullo penniano è il garzoncello leopardiano, la donna angelicata degli stilnovisti. È l’amore stesso, dio e dono. E come una divinità scesa sulla Terra, dorme in riva al mare: 

 

Dormiva...? 

Poi si tolse e si stirò. 

Guardò con occhi lenti l'acqua. Un guizzo 

il suo corpo.

Così lasciò la terra.

 

Il fanciullo, angelo terrestre, non conosce né colpe né peccato. Sandro non vedeva, né io con lui, cosa ci fosse da condannare, sia dalla parte della morale, sia dalla parte dell’intelletto, nel suo amore per gli adolescenti. “E’ un controsenso amare veramente una cosa senza sentire il desiderio di avvicinarla, di assomigliare ad essa… esser degni di un amore non vuol dire dar qualcosa in cambio, sia pure qualcosa di nobile, ma solo essere simili all’oggetto che si ama”.

 

A Perugia, dov’era nato, visse per lo più solo con il padre ed una zia. La madre, in perenne lite col marito donnaiolo, aveva ben presto lasciato il tetto coniugale, trasferendosi a Roma con i figli più piccoli. La città cominciava a pesargli, nonostante i vicoli, le strade e le scalette che lo avevano visto correre bambino; nonostante la luce, le rondini a stormi, le campane, la piazza, il Duomo, il vento incessante di via de’ Priori, le “vasche” di corso Vannucci e il parapetto finale che s’affaccia sulla valle luminosa, con Assisi, laggiù, incassata sul fianco del Subasio. Ormai Perugia era chiusura e solitudine e un padre, che lo accusava di vivere alle sue spalle, di derubarlo, di perdere tempo con cose inutili come la poesia, di non combinare niente. La lasciò, nel 1929, per Roma, la metropoli, dove c’era la madre. Dove, forse, avrebbe potuto vivere liberamente la calda vita che sentiva scorrere in sé, confondersi con gli altri, sciogliersi nel tutto. Vagabondava di giorno per le strade gremite di volti, di voci; di notte per cinema bui, osterie. Lavoretti saltuari da contabile e liti con la madre, che gli dava dell’ozioso.  Ma troppa era l’urgenza della poesia: “Far poesia di tutto: guardare un muro – l’interno del treno (la sera) – ma vera poesia”.

Intanto qualcuno si accorge di lui. Grazie all’interessamento, all’ammirazione ed all’amicizia di Saba e in seguito di Montale, le sue poesie negli anni Trenta cominciano ad apparire su riviste di letteratura. Mentre lui non aveva nemmeno il denaro per affrancare le lettere ai nuovi amici. Le sue prove, definite “piccoli miracoli”, lo portavano naturalmente ad inserirsi negli ambienti e nei circoli letterari del tempo, ma lui restava come straniero, a disagio, consapevole che occorreva molta scaltrezza ed ambizione per arrivare ad avere peso nel mondo della letteratura; consapevole dell’ “intricante ipocrisia dei letterati”, come scriveva a Montale o, come gli scriveva Saba, che nella vita “non basta valere, bisogna anche farsi valere”. Non aveva, per questo, né le energie né il carattere necessari. “Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita”.

Intanto nel 1939, superate complicate difficoltà con la censura, esce la sua prima raccolta “Poesie”.

Durante la guerra si arrangiò con commerci vari, di libri, ma più spesso di pastine glutinate e prosciutti che andava a comprare in Umbria (tornò a Perugia per questo, nel 1943: la città non lo riconobbe né lui si riconobbe nei volti e nelle cose “aride e sfatte”). Il fascismo e la guerra passarono su di lui come totale estraneità, troppo orrore e disprezzo ne ebbe per parlarne nella luminosità dei suoi versi. Dall’alto del terrazzo sovrastante la sua casa a Roma, all’arrivo degli alleati, vide i tedeschi fuggire, deboli, ubbidienti a un ordine folle, per la prima volta umani, uomini, individui, mentre lui con gli altri gridava che era finita, mentre loro morivano in silenzio sui ponti dove gli americani sganciavano bombe, così piccole in lontananza…

 

Nell’Italia democristiana del dopoguerra, Penna non ebbe un posto e riconoscimenti maggiori che sotto il fascismo, malgrado la pubblicazione di altre raccolte (fino al ’70, quando Garzanti raccolse Tutte le poesie) e qualche premio letterario. La sua povertà continuò tale e quale, solo iniziative volontarie, da parte degli amici letterati, Pasolini su tutti, e una sottoscrizione promossa da Paese Sera, vennero incontro in parte alle sue necessità. Lui, del resto, non ambiva ad onori e raramente e con disagio si presentava a incontri ufficiali, procurandosi antipatie e noncuranze. Ma, per lui, “felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”.

La sua strana gioia di vivere era fatta così, di liberazioni improvvise, di epifanie di felicità e squarci di luce sempre nella coscienza del limite e della provvisorietà di ogni realtà. 

Attimi assoluti nei quali uomini e cose s’inverano e vivono per sempre.

 

Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.

Ma più belli di te ragazzi ancora

dormiranno nel sole in riva al mare.

 

Ma non saremo che noi stessi ancora.

 

 

 

L’articolo è una personale rielaborazione da Elio Pecora, Sandro Penna: una certa follia.

Paola Bordoni, gennaio 2007.

C:\Documents and Settings\GHISMUNDA\Documenti\Immagini\disegni Vittoria\disegni Vittoria 007.jpg disegno di Vittoria Bartolucci.

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SANDRO ALLEGRINI: "Le nove dimore di Penna", in "Corriere dell'Umbria" del  3.10.2006

 

PERUGIA - E stata ormai acquisita - e certo corrisponde a verità - la piena consapevolezza sul fatto che il rapporto di. Penna con la città natale non fu idilliaco, anche in ragione del senso di frustrazione e di sofferenza che marcarono l'infanzia e la prima giovinezza del poeta, poco amato da compagni e familiari, compreso il padre; Dolore tanto profondo da indurre il giovane, su consiglio di Umberto Saba, a ricorrere alle cure dello psichiatra dottor Weiss, la cui terapia, pero, fu presto interrotta. Tanto che Sandro Penna continuò a lamentarsi per tutta la vita della sua nevrosi e ricorse costantemente all'uso di tranquillanti, di cui la casa era letteralmente disseminata.

D'altronde - ansia a parte - la critica si e affannata a spiegare che la poesia del cantore dei fanciulli si sottrae costantemente al condizionamento del tempo e dello spazio. Si tratta, certamente, di una pagina intensa, ma inserita in un "Canzoniere" privo di storicità. Scrittura, dunque, "atopica", ovvero "senza luogo" e "acronica", ossia "senza tempo", dal momento che il suo "oggetto del desiderio" - il fanciullo - potrebbe indifferentemente apparire ovunque e in ogni tempo, in periodo medievale o nell'Ottocento, nelle vesti di un paggio o di un garzone di osteria, di un marinaio o di un soldato. Eppure il tempo e il luogo storico di Penna sono delle certezze consolidate. Sandro Penna nacque in Via Mattioli, una viuzza tortuosa, buia e scoscesa, in Porta Sole, compresa tra piazza Michelotti e via Raffaello, al civico 7, il cui ingresso - come si può ben vedere nella bella incisione di Serena Cavallini - posto in cima ad una scala, è ornato da uno stemma gentilizio. La famiglia si trasferì quindi in Via del Circo, 1, poi passò in Via Bonazzi, 7, quindi in Corso Vannucci, 2, in Via Bottinelli, 6, in Via Vincioli, 7, in Via del Fagiano, 21, in Via Vermiglioli, 5 (a più riprese citata dal poeta) e infine in Via della Luna, una stradina che va da Corso Vannucci a Via della Cupa. La difficoltà che impedisce una sicurezza perfetta e "assoluta" - spiega Giulietta Mastroianni, autrice de "La città vuota", il noto video biografico su Penna - e legata anche al fatto che i numeri civici di certe strade hanno subito, nel tempo, anche due o tre variazioni. Non c'e pertanto corrispondenza tra la numerazione di oggi situazione  di allora. Ma, civici a parte, sulle strade di Penna non ci sono incertezze di sorta. Lo stesso Elio Pecora, autorevole biografo penniano - aggiunge e puntualizza l'informatissima "film maker" - è caduto in imprecisioni ed evidenti omissioni, dovute a superficiali ricognizioni sul territorio. In ogni modo, è perentoria la certezza intorno alla casa natale: Via Mattioli, 7, luogo in cui dovrebbe essere posta la lapide commemorativa a cura della "Stranieri", d'intesa col Comune di Perugia.

Venendo alla proposta lanciata da queste pagine, relativamente all'istituzione della "Giornata di letture penniane" da reiterare il 12 giugno di ogni anno, in occasione dell'anniversario della nascita del poeta, ci piace rilevare che essa ha riscosso l'attenzione e il consenso degli addetti ai lavori e dei lettori.

La redazione cultura del "Corriere" sta lavorando ad una messa a punto dell'idea, che offre all’Amministrazione comunale e alla cittadinanza. Oltre, infatti, alle letture penniane alla Sala dei Notari, con la partecipazione delle classi quinte degli istituti cittadini, proponiamo di istituire un premio nazionale di poesia e di "prosa d'arte" (sullo stile del penniano "Un po' di febbre"), con una sezione riservata ai giovani. Il giornale è disposto ad offrire i propri spazi. Le composizioni -caratterizzate da voce e stilemi propri del poeta perugino - potrebbero anche configurarsi come delle autentiche "dediche" al nome e al ricordo di Sandro Penna. Si tratterebbe di una qualificata "giornata della memoria" in grado di risvegliare l'orgoglio letterario cittadino. L'abbinamento alle manifestazioni culturali del XX Giugno conferirebbe a questa ricorrenza la necessaria ufficialità. Perugia potrebbe divenire meta di "pellegrinaggi letterari" oltre che cioccolatieri 

  

Sandro Allegrini, "Le nove dimore di Penna", "Corriere dell'Umbria",  3/10/2006

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