Amici di Sandro Penna - Perugia

Libera associazione di lettori per la promozione e la conoscenza di Sandro Penna  in Italia e nel mondo

 Sandro Penna

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MATERIALI

 

Elio Pecora Pier Paolo Pasolini Paolo Ottaviani Vittoria Bartolucci "CARMEN" Andrea Capaccioni, Carlo Guerrini

ELIO PECORA: nota per le traduzioni da Sandro Penna

 

Impresa più che lodevole questa dell’istituto in cui Sandro Penna trascorse molte giornate della sua adolescenza, fino al diploma di ragioniere. Nelle sue pagine di prosa dedicate a Perugia Penna scrive di non ricordare più i nomi delle strade e delle piazze che quotidianamente traversava, ma di ricordare bene il nome di San Francesco  << la meravigliosa e antica chiesa  che si apriva solo a richiesta del visitatore. E lo ricordo unito alle piccole comitive di stranieri in visita, là dove io dovevo lasciare la celeste aria della primavera umbra  per calarmi entro uno dei soliti archi che in quel caso mi portava al buio della scuola.>>  Così il poeta della luce veste di buio le stanze in cui si sente costretto.

In quegli anni, fra Il 1920 e il 1925, Penna va già ardentemente cercandosi. Cerca la sua verità, il suo destino. Si prepara a una scelta unica e definitiva, quella della poesia.  Compone versi che dedica alla madre lontana, riscrive e apporta varianti ai  versi in  cui appare una stazioncina, e treni e stazioni torneranno molte volte nella sua opera.  Sono gli anni in cui si nutre di molte letture e confida alle pagine fitte di un diario le sue attese.  La poesia che apre il corpo poetico penniano (<<La vita è ricordarsi di un risveglio>>) è dell’agosto 1928. Ma Penna perviene a quell’espressione così limpida e così sapiente, dopo molte pagine scritte e tante riflessioni e letture. Fra il ’25 e il ’28 legge Soldati e Moravia, Comisso e Saba, ma prima ancora il Nietzsche dello Zaratustra e de La nascita della tragedia; s’accende per Hölderlin e per la sua follia che presto farà propria  trasformandola in una follia “cheta”; si riconosce in quella “strana gioia di vivere” che lo contrassegnerà fra i poeti del Novecento italiano ed europeo  e lo renderà ai suoi lettori come unico e incomparabile.

E se Leopardi è il nume che accompagna la sua scrittura, e se è tutta italiana la musica, densa e leggera insieme, che muove e accompagna le sue parole,  sono numerosi gli autori, anzitutto francesi e tedeschi, che nutrono di sostanze le sue prime espressioni. Non ancora ventenne legge Proust e Gide, Baudelaire lo assilla e lo inebria, Rimbaud lo esalta nel suo bisogno estremo di libertà; presto avvicina Poe e Wilde, Valery e Crevel. Intanto costruisce un suo universo di parole: in cui il contrasto convive, s’elude, e la pena si mescola alla gioia, l’ombra alla luce.  Nella mescolanza e nella convivenza di questi contrasti la poesia penniana conferma la sua modernità e la sua durata. Non v’è la negazione che sovrasta il Novecento nella sua opera, ma a chi sappia intendere e sentire v’è piuttosto la visione di un mondo incatenato e pure intessuto di “armonie profonde”.

Penna appartiene alla poesia del mondo, non solo a quella italiana e di un  certo tempo. E tanto è ormai acclarato da più parti se nei paesi più diversi la sua opera è stato e continua ad essere tradotta ampiamente e amorosamente. Basti ricordare la traduzione in francese di Dominique Fernandez, quella in inglese di Blake Robinson. e fra numerose altre le traduzioni  in Spagna e in Cecoslovacchia, in Grecia e in Germania. Mi è stata donata di recente una minuscola edizione di versi penniani in  iraniano.

Nell’anno del centenario penniano Perugia onora il suo massimo poeta affidando a sei traduttori una scelta di poesie:  tutte rese nelle sei lingue scelte con vera empatia. Ne viene un’antologia a più voci in cui la musica penniana si rivela e si rinnova nella sua grazia e levità. Dunque il poeta perugino continua il suo viaggio fra gli uomini, recando il suo dono divenuto anche stavolta – per un omaggio della sua città che tanto lo avrebbe  meravigliato e rallegrato – un bene comune e durevole.

Elio Pecora, settembre 2006

Sandro Penna: « Un po’ di febbre»*

Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori — che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire — ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi. La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati);1

 i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l’adolescenza — malgrado qualche eccezione ch’era una meravigliosa colpa — ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.

Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l’onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.

Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa — e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione — è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere — sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre — non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.

Nel libro Un po’ di febbre di Sandro Penna, si rievoca questa Italia. Il trauma è grande. Non si può non essere sconvolti. Leggendo queste pagine prende un’emozione che fa tremare. E fa venire anche una certa voglia di andarsene da questo mondo, con quei ricordi. Infatti non è un cambiamento di epoca, che noi viviamo, ma una tragedia. Ciò che ci sconvolge non è la difficoltà di adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore simile a quel lo che dovevano provare le madri vedendo partire i loro figli emigranti e sapendo che non li avrebbero visti mai più. La realtà lancia su noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre. Nel libro di Penna quel mondo appare ancora in tutta la sua stabilità ed eternità, quando era «il» mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe cambiato. Penna lo viveva avidamente e totalmente. Aveva capito che era stupendo. Niente lo distrae da quella meravigliosa avventura che si ripete ogni giorno: svegliarsi, andare fuori, prendere a caso un tram, camminare a piedi là dove vive il popolo, fitto e chiassoso nelle piazze, disperso e intento ai suoi quotidiani lavori nelle lontane periferie lungo i campi; o col sole che tutto protegge con la sua luce silenziosa, o sotto una sublime impalpabile pioggia primaverile; o all’alitare del primo, esaltante buio di una lenta sera; e infine incontrare — ché questa apparizione non manca mai — un ragazzo amato subito per la innocente disposizione del suo cuore, per l’abitudine a una obbedienza e a un rispetto non servili, per una sua libertà dovuta alla sua grazia: per la sua rettitudine.

Sembra che mai Penna potesse esser tradito nelle sue speranze di tali incontri, che davano all’esistenza quotidiana, già per sé esaltante la miracolosa gioia della rivelazione, ossia della ripetizione.

Nelle pagine di questi suoi brevi racconti — scritti con una abilità narrativa che non ha niente da invidiare al Bassani dell’Odore del fieno o al Parise di Sillabario — e lo dico perché Penna narratore è una novità e una sorpresa — è contenuta tutta la realtà di quella forma di vita, in cui la gioia, promessa e ottenuta, era di ventata una forma ossessiva. Tanto che è difficile parlare di Un po’ di febbre come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato. E’ qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e innocente complicità. E com’è sublime il completo, totale disinteresse di Penna per ciò che accadeva al di fuori di questa esistenza tra il popolo. Niente è stato più antifascista di questa esaltazione di Penna nell’Italia sotto il fascismo, vista come un luogo di inenarrabile bellezza e bontà. Penna ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l’ha considerata esistente. Peggiore insulto non poteva — innocentemente — inventare contro di esso. Ché Penna è crudele: non ha pietà per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della realtà, figurarsi per ciò che n’è fuori o contro. La sua condanna — non pronunciata — è assoluta, implacabile, senza appello.

Nella sua ristrettezza di motivi e di problemi, nel minimo spazio che si consente, questo libro in realtà è colmo di un sentimento immenso, straripante della vita. La gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente — anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore. Un poeta che può perdere il suo humour delizioso e disperato, lacerare i limiti della forma, espandersi nel cosmo, delirare (vedi pagg. 88, 89, 90). Il lettore mi scusi, se impostato così il discorso, non entro più criticamente nel merito del libro, analizzandolo letterariamente. Esso è fuori dalla letteratura, essendo qualcos’altro, ripeto, che un libro (o un libro unico). Non che io polemizzi contro la letteratura. Anzi la considero una grande invenzione e una grande occupazione dell’uomo. E Penna, a sua volta, è un grande letterato. Ma preferisco lasciare il mio referto sospeso sull’emozione che questo libro mi ha dato col semplice mezzo di una poeticità quasi ovvia (aggettivi preposti ai sostantivi, qualche inversione, esclusione di parole prosaiche, riadottate solo in qualche caso, per improvviso bisogno di realismo o espressionismo): esso lascia il lettore tutto piagato d’un bruciore di lacrime, benché non sia sentimentale mai, in nessun momento.

(“Tempo”, 10 giugno 1973)

 

(*) Editore Garzanti, 1973.
(1) Estrapolazione da un intervento, evidentemente orale, di Ninetto Davoli.

PAOLO OTTAVIANI: La poesia di Sandro Penna tra il mistero e il nulla

 

(Un “laudario” umbro del Novecento)

 

Come ogni grande poesia anche il limpidissimo canto del “poeta antico” Sandro Penna muove dall’ancestrale, misterioso desiderio di lodare l’esistenza, dalla gioiosa volontà di accrescere la bellezza del mondo. Difficile dire se e fino a che punto questo enthousiasmòs, questa pienezza luminosa possa sottostare al dominio della ragione. Tutto ciò che tende ad avvicinarsi alla più intima essenza del poetare, a quell’originario magma vitale, tende anche a sottrarsi alla possibilità di una serena indagine razionale. Poesis ut laudatio dicevano gli antichi, e la comparazione non nascondeva la reciproca componente di mistero insita nei due termini. Vi è, a questo proposito, un passo, tra i vari scritti in prosa di Andrea Zanzotto, dal titolo “Autoritratto”, (proposto per la prima volta dalla trasmissione culturale radiofonica “L’Approdo” nel lontano 23 maggio 1977, poi apparso su “L’Approdo letterario” nel giugno dello stesso anno e successivamente riproposto, con aggiunte e modifiche, in varie edizioni), che ho sempre considerato una sorta di stella polare nella ricerca della sorgente archetipica della poesia di tutti i tempi e di tutte le latitudini. È opportuno riportarlo per intero:

«...la poesia è, prima di tutto, un incoercibile desiderio di lodare la realtà, di lodare il mondo “in quanto esiste”. La poesia è una specie di elogio della vita in quanto tale proprio perché è la vita stessa che parla di sé (in qualche modo) ad un orecchio che la intenda (in qualche modo); parla a suo modo, forse in modo sbagliato, ma comunque la vita, la realtà “crescono” nella lode, insieme generandola e come aspettandola. Ma attraverso la poesia non viene avanti soltanto una lode (è questo un sentimento e un concetto che ritroviamo in tutta una tradizione poetica); si profila un vero e proprio “collaudo” della realtà. In che senso? La realtà si manifesta ben presto anche al bambino nella tragedia delle sue contraddizioni; lascia persino intravedere la sua nullità finale; ma ha pur sempre attimi (che non sono affatto “rari” o “privilegiati” perché possono sorprenderci in qualsiasi momento, anche nel più profondo della stagnazione depressiva) in cui essa rivela la propria dignità assoluta, o meglio la propria “degnità” di esistere, che ha ragioni unicamente in se stessa, tutte da evidenziare, mai del tutto evidenziabili. La poesia in un certo senso collauda la realtà, proprio collegandosi alla lode della realtà, che si fa tanto forte da diventare prova di resistenza, prova di valore. »

La prova collaudante del fare (poièo), e la simultanea presenza del la consapevolezza della nullità finale, dellinfinita vanità del tutto, costituiscono quindi le strutture portanti, invisibili e invasive di ogni genuino, naturale poetare. Ascoltiamo ora questi versi giovanili di Penna [Poesie (1927-1938)]:

 

È forse detto che l’amore umano

vano non debba rimanere mai...

se la vallata è così chiara, il sole

ormai sul monte — con leggero amore

vi scherza. Né si duole più la terra.

 

L’amore può trovare una sua valenza non effimera, la sua degnità, solo se è in grado di accordarsi alla luminosità giocosa e palpitante della natura. E dentro questo accordo tra l’amore umano e il leggero amore degli elementi naturali (la vallata, il sole, il monte, la terra) anche la dimensione del dolore sembra dileguarsi e svanire, oppure sublimarsi in una dimensione accettabile e accettata dall’uomo e dalla natura:... Né si duole più la terra. La poesia del vissuto converge, come diceva Pasolini, con la poesia scritta. Penna ha qui in mente — e nel cuore — lo scenario fulgente di un luogo preciso, frequentato e amato nell’infanzia e nella giovinezza. Corso Vannucci, la strada principale di quella natìa Perugia a lui troppo cara, se si percorre voltando le spalle al Duomo e alla Fonte Maggiore, finisce — dice il poeta — “su l’infinito”. Infatti, continuando a camminare nella stessa direzione, si arriva ad un parapetto dal quale la vista è una delle più belle d’Italia. A sinistra Assisi incassata sul fianco del Subasio, e da tutte le parti la luminosa valle per cui conviene, questa volta, chiamare in aiuto il Carducci («e il sol nel radiante azzurro immenso / Fin de gli Abruzzi al biancheggiar lontano / Folgora, e con desìo d’amor più intenso / Ride ai monti de l’Umbria e al verde piano»). Eppure non v’è dubbio che una delle caratteristiche più vistose della poesia italiana del Novecento era stata quella di muoversi nelle paludi, se non del nichilismo, certo di una forte e costante negatività. La poetica del ciò che non siamo, ciò che non vogliamo era risultata oggettivamente prevalente. L’impianto incantatorio della parola si era piegato sulla foschia dei sonnolenti meriggi, sulle foglie riarse, sui rivi strozzati, il panorama della natura, gli alberi, le case, i colli costituivano lo sfondo amaro e disincantato dell’ “inganno consueto“, la realtà si stagliava proditoriamente come “il nulla alle [ … ] spalle”. Il 1939 era stato l’anno delle Occasioni montaliane e del primo libro pubblicato da Penna, dal titolo laconico e immortale: Poesie. La tragedia della guerra è già in atto, l’Europa sta per tramutarsi in un immenso rogo, «la bussola va impazzita all’avventura / e il calcolo dei dadi più non torna». I versi di Montale sembrano essere i più segreti, sommessi, sagaci interpreti dei mali esistenziali, presaghi delle catastrofi imminenti, legittimi figli di tempi infelici. Saranno i fedeli compagni di generazioni di intellettuali macerati dall’assenza di ogni possibile desiderio, analitici indagatori del vuoto.

E come altrimenti sarebbe stato possibile cantare se non con storte e secche sillabe? Ma è proprio qui, come da solitaria stele nel deserto, che la poesia di Penna «lancerà la sua forza / a perdersi nell’infinito». Sarà la forza generata da una diversa prospettiva, sgorgata dall’interno stesso del flusso magmatico delle sensazioni. La leggerezza, la grazia, la felicità della poesia saranno allora la leggerezza, la grazia, la felicità dell’aver percepito. E tuttavia all’accordo sublime tra la felicità del sentire e la felicità della poesia scritta non si giunge d’improvviso. Non siamo di fronte al gratuito, miracoloso sbocciare di un fiore. È vero che Penna ha amato far credere al prodigio del “bianco taccuino sotto il sole” dove la Poesia si sarebbe felicemente e facilmente cristallizzata. Ma un’analisi rigorosa dei testi, delle pagine del diario, delle lettere, di tutto il materiale edito postumo mostra inequivocabilmente come alla grazia finale del testo poetico si giunga attraverso un tormentato scavo interiore, un’ampia sperimentazione, un infaticabile lavorìo sull’anima e sulla parola.

Nella dolce natura degli umbri vi è una istintiva tendenza a tenersi lontani da qualsiasi forma di eccessiva esteriorità e di esibizionismo. Si preferisce lasciar parlare il silenzio delle pietre millenarie, prodigiosamente tese ad arco dagli etruschi, la luce bianca dei campanili gotici, quasi dipinti sulla “celeste luminosa aria della primavera”, il docile profilo delle colline che s’increspano come onde all’orizzonte, la maestà ciarliera delle querce, la calda, rassicurante vitalità degli ulivi. L’anima di Penna è incastonata dentro questo paesaggio. Molti dei suoi versi cosiddetti “oracolari” sono figli di questa indole antica, di questo medioevo umbro che si è profondamente impresso nelle fibre vitali delle cose e degli uomini. La presunta “astoricità” della sua poesia altro non è che il rispecchiamento di un tempo e di un carattere secolare che porta i segni, come ha osservato Cesare Garboli, non del frammento greco, ma della lauda umbra. E nell’accrescimento laudativo della misteriosa bellezza del mondo non può sussistere alcuna differenziazione ontologica tra uomini, cose e animali. Gli alberi possono allora abbandonarsi al sogno, l’amore può far cantare le cicale, il sole restare indifferente al “batticuore” della lucertola catturata da un fanciullo:

 

Ditemi, grandi alberi sognanti,

a voi non batte il cuore quando amore

fa cantar la cicala, quando il sole

sorprende e lascia immobile nel tempo

il batticuore alla tenera lucertola

perduta fra due mani in un dolce far niente?

Anche a me batte il cuore, e pur non sono

io del fanciullo vittima innocente.

 

«Di tutti i poeti del Novecento, Penna è il solo che non adoperi simboli. È tutto in luce, tutto lì, nelle parole che pronuncia, infimi strumenti e materiali da artigiano che bastano a spiazzare, di colpo, il complicato e faticoso edificio a chiave costruito, come un immenso giocattolo, dalla poesia moderna». L’osservazione di Garboli è pertinente, ma resta senza spiegazione. Vi è infatti un a priori rimasto nascosto. La giustapposizione “grezza” tra vita e poesia, tra il momento sensitivo e quello artistico e letterario trova il suo fondamento — non importa se e quanto filosoficamente consapevole — nella parificazione ontologica tra uomo e natura. Per questo è fuorviante affermare che «ogni legame storico e umano con la vita è stato da Penna cancellato». Vi è piuttosto una profondissima connessione ante factum tra le modalità del percepire e le modalità dell’esprimere, una sapienza della storia e della vita non dichiarata, forse persino non conosciuta, ma che ha plasmato definitivamente il modo di intendere tanto la vita quanto la poesia.

È lo stesso Penna d’altronde che dichiara: «Voglio una poesia gocciolante di viva passione, grezza di tutte le scorie che ne attestano la presenza. Non amo la poesia che sopra la passione si alza serenamente e domina... So bene che troppo spesso non si vorrebbe scrivere nel momento stesso in cui il senso è padrone di tutta la nostra persona, ma si dovrebbe fare per un dovere, per un sacrificio che ci darà poi la sua ricompensa!... Siamo tutti lontani dal vivo della natura e vogliamo divertirci ad allontanarcene sempre di più, a cercare nei vuoti i colori decisi e splendenti di essa? » Solo la poesia che “si alza serenamente e domina” ha bisogno di simboli per tentare — inutilmente — di ricostituire la sua lacerata unità interna. Penna non ama questo poetare immemore del palpito della natura, svuotato di ogni viva, gioiosa e sofferta passione.

Teme che sotto la distaccata, serena attività raziocinante possa annidarsi l’oscurità di un tradimento che scardinerebbe la finissima, invisibile trama unitaria di vita e poesia:

 

“Poeta esclusivo d’amore”

m’hanno chiamato. E forse era vero.

Ma il vento qui sull’erba ed i rumori

della città lontana

non sono anch’essi amore?

Sotto nuvole calde

non sono ancora i suoni

di un amore che arde

e più non s’allontana?

 

L’amore efèbico è perfettamente, delicatamente incastonato tra gli elementi naturali e storici (il vento, l’erba, i rumori, la città, le nuvole, i suoni). Non ha, come nessun altro elemento naturale potrebbe, da solo, avere, alcuna particolare valenza di eccitazione sensoriale. È tutto l’universo penniano ad essere mosso da febbricitante passione. Egli accetta volentieri di essere definito “poeta esclusivo d’amore”, (forse era vero). Ma è tuttavia preoccupato dei possibili fraintendimenti, delle limitazioni, delle angustie interpretative. Se si isola — come tanta critica ha fatto per più di mezzo secolo — un solo elemento nella coralità armoniosa di uomini e natura e se ne fa un feticcio per ogni possibile attività ermeneutica, non si coglie il senso più profondo del suo poetare e, in un certo senso, se ne umilia la bellezza.

Le domande che Penna ha posto nella poesia sopra trascritta sono chiaramente domande retoriche: è amore “il vento qui sull’erba”, sono amore “i rumori della città lontana”. Il fremito celeste di partecipazione alla viva essenza di ogni cosa è garanzia di eternità, si perpetua nei suoni, rende impossibile un distacco definitivo (e più non s‘allontana), testimonia, nell’alternanza delle percezioni e nella varietà degli stati psicologici — gioia, dolore, eccitazione, depressione ecc. — la sostanziale unità ciclotimica della natura. Mentre Montale declinava ogni possibile approccio definitorio — Non chiederci la parola che squadri da ogni lato —, Penna, come mosso da un’ancestrale consapevolezza gnoseologica, può pacatamente dichiarare perfino l’essenza stessa della vita. La vita è un dolce ricordo. E l’aggettivo dolce ha valenza forte. Non si tratta di una mera, asettica attività mnemonica: la dolcezza e la beatitudine spirituali sono pervasive, intimamente connesse al fluire della rimembranza. Dulcedo memoriae tanto più insistente e godibile quanto più sottratta alla mediazione dell’autocoscienza. Infatti è più dolce un’epifania improvvisa che s’impone con la forza dei colori e degli odori di un lento risveglio attraverso il quale i sensi e la coscienza riacquistano lentamente le loro funzioni:

 

La vita.., è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione

improvvisa è più dolce: a me vicino

un marinaio giovane: l’azzurro

e il bianco della sua divisa, e fuori

un mare tutto fresco di colore.

 

È la famosissima, paradigmatica poesia di Penna, datata 24 agosto 1928, edita da Parenti nel 1939 come canto d’apertura alla prima raccolta. Ben oltre mezzo secolo di appassionata critica letteraria non ha chiarito del tutto l’oggetto della liberazione del primo verso della seconda strofe. Liberazione da chi, da che cosa? Come ogni parola pentasillabica è questo un termine assai difficile da gestire all’interno del delicato sistema accentuativo dell’endecasillabo. Solo la sapienza degli enjambements garantisce la continuità dell’arco musicale, così come in effetti accade con la malinconia / vergine e aspra della prima strofe: qui però gli echi semantici e fonici del sostantivo e degli aggettivi sono di indiscusso fascino, naturalmente poetici. Si ha invece il sospetto che, nella seconda strofe, potendo, si sarebbe fatto a meno di una parola pesante come liberazione. Per garantire il continuum musicale all’enjambement si aggiunge un’ipotetica e anomala sinalefe di fine e inizio verso — liberazione / improvvisa —, ed è proprio qui che s’inserisce l’affermazione decisiva: è più dolce. Dunque la vita è un dolce ricordo, ma il grado della beatitudine è massimo se il ricordo si libera di se stesso. Quando l’epifania è talmente potente da ritornare viva nella poesia esattamente così come è stata vissuta, allora il cerchio si chiude. La poesia ha compiuto il suo altissimo compito di lodare la realtà. La realtà è cresciuta nella sua bellezza.

 

Tratto da Poeti e Poesia, Rivista Internazionale diretta da Elio Pecora n. 7, Aprile 2006

 

Paolo Ottaviani è nato a Norcia e vive a Perugia. Laureato in filosofia con una tesi su Giordano Bruno ha pubblicato saggi sul naturalismo filosofico italiano. Dal 1994 dirige la Biblioteca dell’Università per Stranieri di Perugia. Ha fondato la rivista “Lettera dalla Biblioteca”. Ha pubblicato la raccolta di versi Funanibolo. Collabora a varie riviste tra le quali “Logos-Verba Volant”, l’iniziativa on-line dell’Unesco volta a diffondere il multilinguismo. Ha contribuito alla traduzione in lingua estone di opere letterarie italiane.

VITTORIA BARTOLUCCI: I colori nella poesia di Sandro Penna

 

Quale il significato simbolico dei colori che compaiono nella lirica di Penna e quali le loro valenze psicologiche?

I colori del poeta perugino appaiono dotati, in generale, di un duplice significato, positivo e negativo, benchè tale distinzione non sia mai netta. Accade allora che il verde, il colore delle colline e delle foglie, sia anche quello della “noia della primavera”, del biliardo, del prato (“...mutare il verde prato/in un gioco proibito”, dice il poeta) ma anche e soprattutto esso è usato come il colore del confine, altrove costituito da una panchina o dalla persiana, al di là del quale si trova qualcuno che non sa o non vuole o finisce con l’essere partecipe di ciò che prova il poeta. Le stesse osservazioni valgono per il colore bianco, in genere un bianco accecante come quello della neve, che è sì il colore di una “vaga e bianca/domenica festosa” ma anche quello della divisa dei marinai o dei fazzoletti agitati in segno di addio o del “bianco sorriso del fanciullo”: il colore, insomma, di qualche cosa che è lontana, irraggiungibile, perduta.

Così per il colore nero, che è sia quello del treno, tanto caro al poeta, sia quello delle “nere scale della mia taverna” o della “bottega di mio padre”; un colore dunque che simboleggia solitudine, minaccia, incertezza, morte. Lo stesso accade per il colore rosso, il più inquietante dei colori della tavolozza penniana perché caratterizza, nelle sue varie sfumature, qualcuno che sta di fronte al poeta (e di cui sfugge spesso la fisionomia e il rapporto con lui) incerto e misterioso. Esiste però anche un rosso tranquillizzante, diciamo, come quello dei pomodori che ”sta segreto e acceso/nel verde come un mare”.

Si sottolinea inoltre la presenza di alcune sensazioni visive particolari, che non sono veri e propri colori ma si generano dalla luce o dalla sua assenza: abbiamo così, ad esempio, “le finestre illuminate nella notte” o la “chiara voce del mare” oppure “la bicicletta tutta luce”, da una parte, e il “davanzale tutto buio” dall’altra. La stessa parola “colori” appare in alcuni casi con diversi significati: ad esempio, “colore di opulenta gallina” o “albe più dense di colore io vidi”. Infine si nota la frequente presenza di due colori particolari che non sono esattamente definibili a causa della loro mutevolezza in funzione di vari elementi: quello della pelle umana, che si lega visivamente alle parole “nudo - corpo - carne” (un esempio, per tutti: “Un guizzo/il suo corpo”) e quello dell’acqua, di mare o di fiume o d’altro, colore che a volte è definito come “tutto azzurro”, a volte come verde, a volte turchino o biondo (“come quest’acqua bionda che si smorza”).

Il colore che però, in definitiva, pare dominare su tutti resta il bianco, quello, così importante per il poeta e per noi, del suo bianco taccuino sotto il sole.

 

Vittoria Bartolucci, da “Quaderni degli Amici dell’Umbria in Emilia Romagna”, n. 3, 9 maggio 1992

CARMEN:

 

Per la collana “Scrittori tradotti da scrittori”, dopo Levi, Kafka, Gizburg, Flaubert e Manganelli, Poe, l’Einaudi pubblica postumo un lavoro del poeta perugino

 

di Andrea Capaccioni:

 

La bella collana dell’Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”, così ben avviata dalla traduzione di Primo Levi del “Processo” di Franz Kafka, si è arricchita in questi giorni di un nuovo titolo: “Carmen e altri racconti” (pp. 257, lire 9000) di Prosper Mérimée nella versione dì Sandro Penna con una illuminante postfazione di Cesare Garboli e una nota di Pietro P.Trompeo. La collana dalla caratteristica copertina color carta-zucchero, che è certo una delle più belle novità editoriali di questi ultimi tempi, ripropone capolavori stranieri in nuove e vecchie traduzioni d’affermati scrittori italiani. Alcuni di questi accostamenti non tarderanno ad entrare nella nostra storia letteraria: Levi-Kafka, Gizburg-Flaubert (M.me Bovary), Manganelli-Poe.

Ma torniamo a Mérimée: cosa dire di questo “minore” romantico? lnnanzitutto che nacque a Parigi agli inizi del XIX secolo, che visse negli stessi anni in cui si consumava la gloria e il disonore di Balzac, ma in particolar modo che fu amico di Stendhal, per cui scrisse l’orazione funebre intitolandola bizzarramente con una sigla: Hbpm, cioè le iniziali del proprio e del vero nome dell’autore del “Rosso e il nero”, Henri Beyle. Come scrittore diremo che ebbe un discreto successo, raggiungendo la massima notorietà con i racconti, mentre il resto della sua produzione: romanzi storici e drammi finirono con ragione nel dimenticatoio.

Prosper Mérimée fu un erudito ed un archeologo, amò viaggiare, soprattutto in Spagna, la sua terra eletta. E i temi, cari allo scrittore, della terra spagnola, del mistero e dell’erudizione li ritroviamo tutti nei quattro racconti della raccolta einaudiana: “Carmen” (1845), “Il vaso etrusco” (1830), “Le anime del Purgatorio” (1834), “La Venere d’Ille” (1837). Le tre ore di lettura e più che assicura questo libro sono una garanzia di un piacevole viaggio della fantasia nella più genuina tradizione romantica che mescola sapientemente i colori delle passioni amorose e mortali con gli spasimi dei momenti fantastici e misteriosi.

Ma, si badi bene, se pure Mérimée amava le tinte forti, da buon parigino, vorrei dire volterriano, seppe evitare gli eccessi e il rischio del ridicolo.

E dire che la vicenda di Carmen avrebbe potuto prendere la mano a qualsiasi pittore e indurlo a pacchianerie grossolane. Nel racconto invece lo scrittore ci restituisce una zingara da desiderare e una storia tutta da leggere.

Carmen è descritta a tutto tondo: viperina e sensuale, tirannica ammaliatrice dell’amante Josè Navarro. Tutto intorno aleggiano le atmosfere iberiche i paesaggi meridionali.

E poi, come in una sorta di brillante reportage, l’autore dissemina per lo scritto erudite dissertazioni su vocaboli e abitudini del mondo zingaresco, spesso magico e misterioso.

Ne “I1 vaso etrusco” lo scenario è diverso, il racconto è giovanile ed è sicuramente tra i meno riusciti, una vicenda che si svolge in interni dove si consuma un amore impossibile che ha conseguenze mortali. Attori di questo dramma sono i giovani Saint-Clair e Mathilde de Coursy. Ben più consistente è invece il racconto intitolato “Le anime del Purgatorio” che si svolge nella Spagna barocca e ha come soggetto la conversione di un uomo, Don Juan, afflitto da scrupoli religiosi. Sono pagine ricche e atmosfere fantastiche e magico-religiose, ma, garantito, non si raggiunge l’estasi proprio per via di quel solito distacco merimeiano fin troppo laico. Per finire viene presentata la “Venere d’Ille” un prezioso raccontino di carattere erudito imperniato sul ritrovamento di una statua di dea. Il paesaggio. provinciale, la dissertazione saccente, il mistero che avvolge il ritrovamento del reperto romano e gli effetti che gli sono attribuiti, la stessa ironica maniera con cui vengono trattati i superstiziosi abitanti del paese e la goffagine della famiglia De Peyrehorade, contribuiscono a renderlo gustoso e accattivante.

Dalla raccolta rimangono fuori altri bei racconti di Mérimée come “Colomba” (1840), una storia d’amore mortifero collocata in una loschissima Corsica, e “Lokis” (1869), storia di un uomo per metà orso. Chissà forse un giorno da qualche cassetto della casa editrice piemontese spunteranno quei manoscritti, magari ancora tradotti da Penna, e noi potremmo dedicarci ad altre ore di piacevole lettura.

 

di Carlo Guerrini:

 

Quando si parla di traduzione di un’opera letteraria viene spontaneo domandarsi, e a volte suscita più di una curiosità, quale sia il livello di complicità instauratosi fra il traduttore e l’autore del testo. Nel nostro caso, dove appaiono lontano i motivi professionali, cioè il tradurre come mestiere o come esperienza, la domanda affiora giustificata più che mai. E dunque questo inatteso incontro tra un poeta “illetterato” come Sandro Penna e uno scrittore erudito come Prosper Mérimée stuzzica alcune considerazioni e ipotesi.

A vantaggio della suddetta complicità si può affermare che Penna deve aver sicuramente amato il personaggio di Carmen. A metà strada tra démon e enfant, come scrive Cesare Garboli nella stimolante postfazione al volume, la figura di Carmen sembra incarnare i lineamenti morali e psicologici di un emblematico fanciullo penniano. Padrona di una libertà estrema, la zingara di Mérimée rivela l’astuzia di un ragazzo di vita cresciuto alla scuola della sopravvivenza, accarezza le tenaglie della passione verso le quali si sdebita con una temporanea ma ostinata dedizione nei confronti dell’uomo che ama. Gli occhi e la fierezza del lupo, la dedizione del cane sembrano tracciare indicativamente i poli del “bestiario” penniano, ma anche l’animale selvatico e infedele lascia la sua impronta, come il fanciullo troppo libero e vagabondo per fermarsi in un solo porto. Di fronte alla morete, Carmen ha un atteggiamento di predestinazione e quasi d’indifferenza; è la morte che scende leggera nei giovani e li consacra agli dei. Pennianamente, è il prezzo che Carmen deve pagare per il suo estremo rifiuto delle regole borghesi, entro le quali vorrebbe trascinarla il brigante pentito don Josè. Ma davanti a questa diabolica gitana, l’arte della rappresentazione rivela uno scarto incolmabile nel confronto tra i due autori. Certo Penna avrebbe guardato dentro l’abisso del cuore di Carmen come un Narciso alla fonte, con tutte le conseguenti implicazioni; Mérimée, per temperamento erede dell’illuminismo e del buon gusto settecentesco, prende le debite distanze dalla materia: la novella è un racconto dentro un altro racconto, e Carmen vi è dentro come un fuoco isolato nella scatola più interna. A livello stilistico le conseguenze sono evidenti: lo scrittore francese, rinnegando completamente la rappresentazione dell’eros (atteggiamento che non può peraltro essere esteso a tutto l’Ottocento), ricama intorno alla novella una cornice di dissertazioni erudite, di carattere etnico-linguistico; il suo modo di attenuare la materia passionale è insomma un asse strutturale del racconto, ed è connaturato al medesimo attraverso uno stile decisamente asciutto, più incline a una misura classicheggiante che non a un coinvolgimento romantico. Anche in Penna agisce l’attenuazione ma è data spesso da una visione del mondo ancora infantile, che rimpiccolisce le cose e crea un microcosmo nel quale la passione è costantemente pervasa di luce, il linguaggio è caldo e ricco di aggettivazione, eppure tutto è casto, lontano dal voluttuoso. Nella versione italiana Penna sembra perdere la propria anima, la propria idetità, per agire con una rigidità un po’ scolastica e immolare le sue note ariose a una fredda fedeltà testuale. Paradossalmente, l’autore di Stranezze ricostruisce tutto il rigore, l’erudizione,l’intellettualità ironica di Mérimée nel momento in cui rivela la sua estraneità a quel modulo rappresentativo. Ed è, questa una forma di fedeltà insperata. E’ difficile, infatti, credere che Penna abbia veramente sentito la padronanza e un’originale paternità delle sue traduzioni: non a caso, Carmen e altri racconti ha subito le revisioni di Natalia Ginzburg e di Emilio Faccioli; quanto all’altra versione di Presenza e profezia da Claudel, si può dir tutto fuorché giurare su reali interessi pennini per dei “commenti anagogici delle Scritture”. L’ipotesi formulabile è che Penna abbia accettato una commissione, e con essa il “mestiere” di traduttore, come uno dei suoi tanti lavori, magari un po’ più degno, sicuramente onesto e non volgare. Carmen è certamente rimasta nei suoi occhi, ma egli deve aver chiuso le pagine di Mérimée per inseguirla, sotto altre spoglie, nelle sue sortite da mercante di quadri e cianfrusaglie.

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